Iron Maiden, The X factor e l’ignorata qualità del cambiamento

Non c’è alcun bisogno di presentazioni particolarmente amplificate, perciò non staremo qui a stendere chissà quali grandi biografie di leggende viventi rintracciabili in qualunque annale della storia del rock: gli Iron Maiden sono una delle pochissime band mondiali a godere del sinonimo di eternità. «Hell ain’t a bad place / Hell is from here to eternity», cantavano proprio loro in uno degli album di maggiore impatto sia di gradimento che di riscontro commerciale, vale a dire Fear of the dark del 1992.

Fino a quel momento paladini indiscussi della scissione del genere heavy metal dalla semplice frangia hard rock, la longevità e la quintessenza indelebile della “vergine di ferro” è il marchio impresso a caratteri cubitali su ogni splendida copertina ad opera di Derek Riggs con l’icona Ed Hunter a sprigionare senso ludico e, spesso, significante nei confronti di album passati alla storia sotto una vera e propria essenza epocale. Stiamo parlando di capolavori come il primo eponimo Iron maiden (1980), il sequel Killers (1981) e il giro di boa seminale rappresentato dal celeberrimo The number of the beast (1982), disco che avrebbe stabilito una volta per tutte le fondamenta del genere e consacrato nell’olimpo del metallo lo strabiliante timbro del vocalist Bruce Dickinson (subentrato all’originario Paul Di’ Anno, allontanato per abuso di droghe e alcol), la cui ugola, di lì a pochissimo, sarebbe diventata un simbolo assoluto nonché base per lo studio dell’impostazione heavy metal da pliche vocali.

Dopo una serie di (pur soffertissime) fortune professionali avviate praticamente nella medesima modalità con la quale il buon Dickinson e i prodi compagni di strada Steve Harris (bassista e principale membro fondatore della band inglese), Dave Murray (chitarra), Adrian Smith (chitarra, subentrato al predecessore Dennis Stratton e a sua volta sostituito, nei primi ’90, dall’istrionico Janick Gers) e Nicko McBrain (batteria, in sostituzione di Clive Burr, scomparso nel marzo del 2013 dopo una lunga malattia) salgono ancora oggi sul palco, cioè d’impatto immediato, possente, all’improvviso sul finire del consueto intro registrato (così, a bruciapelo, te li trovi davanti a schitarrarti in faccia sorridenti, felici e paciosi), la strada maestra dell’agglomerato londinese incasella perle su perle a partire da Piece of mind del 1983 (contenente gemme preziose e veri e propri cavalli di battaglia come Where eagles dare, The trooper o Flight of Icarus), Powerslave del 1984 (intramontabili Aces high e 2 minutes to midnight), il monumentale doppio album dal vivo Live after death (1985), per arrivare al meno entusiasmante ma comunque seminale Somewhere in time del 1986 (alzi la mano chi disprezza Alexander the great, Wasted years o The loneliness of the long distance runner) e al successivo concept Seventh son of a seventh son del 1988 (che pure tira fuori a raffica reperti preziosi come Can I play with madness, The evil that man do e Infinite dreams). Una battuta d’arresto ispirativa è rappresentata da No prayer for the dying (1990), forse il punto qualitativamente più basso dei Maiden fino a quel momento, ma un recupero a pieni giri è dietro l’angolo perché posizionato sugli scaffali dei negozi di dischi un paio di anni dopo: proprio il doppio vinile Fear of the dark, infatti, è giudicato da una buona fetta di pubblico e di critica come una sorta di nuovo classico dell’heavy metal (dieci anni dopo il vero classico, anche se qui siamo di fronte a nuovi intramontabili cavalli di battaglia come l’omonimo brano finale, From here to eternity, Be quick or be dead, l’epocale ballad Wasting love, l’oscura e quasi politicamente schierata Afraid to shoot strangers), malgrado il genere stia vivendo un periodo di magra difficilmente recuperabile, specialmente dal momento in cui la scena rock mondiale viene letteralmente invasa dalle influenze sludge, grunge e crossover statunitensi, meno tecniche ma ben più capaci di produrre impatto su un’intera generazione contemporanea.

Prima di arrivare all’attualità che li vede calcare i palchi di tutto il mondo pluricinquantenni, smaglianti e in formazione a sei (con Dickinson al microfono e Janick Gers mantenuto nonostante l’osannato rientro di Adrian Smith), però, proprio durante e immediatamente dopo il tour del fortunatissimo Fear of the dark (che toccò in maniera gratuita anche una notevole tappa romana presso il “concertone” del primo maggio) qualcosa accadde. Successe, infatti, che il buon Dickinson, forte anche di una celebrità maggiore rispetto a quella che ricoprivano gli altri componenti della “vergine”, sulla scia di una immagine personale estremamente vitale e trascinante, lasciò la band poiché desideroso di dare avvio a una carriera da solista forse meno metal e più hard-rock-blueseggiante, di sicuro ben poco appagante da un punto di vista di vendite e seguito complessivo.

Nel frattempo, tra le mani di Steve Harris restavano una manciata di registrazioni dal vivo che (probabilmente più per contratto discografico da onorare con la EMI che per reale volontà artistica) furono diligentemente selezionate, mixate e sparse (pur senza molta utilità se non di stampo meramente collezionistico; e di collezionismo, per i tasselli a nome Iron Maiden, si potrebbe parlare all’infinito per quanto numerosi e belli sono i formati di supporto, soprattutto quelli in vinile) in ben tre album live quali A real dead one (che conteneva le registrazioni live di brani più datati), A real live one (contenente brani di più recente scrittura) e il doppio (triplo nella versione in vinile) Live at Donington (forse, dei tre, il documento migliore).

C’era, però, un enorme problema di fondo: Bruce Dickinson era andato via e bisognava trovare, ancora una volta, un nuovo cantante (in questo, comunque, Harris era ormai molto ferrato, visti i travagliatissimi avvicendamenti di formazione a nome Iron Maiden prima della principale formazione stabile del primo album, periodo ripercorso benissimo dal gran bel documentario The early days). Non solo: bisognava trovare un nuovo cantante che potesse essere gradito da un pubblico fino a quel momento cresciuto a dismisura (in maniera praticamente incontenibile in ogni angolo del mondo, anche il più sperduto) e che di Dickinson aveva fatto un suo inamovibile paladino.

Dopo una serie di provini che si dilungarono fino ai primi mesi del 1994 (furono passati in rassegna, con discutibilissima precedenza alla nazionalità britannica, anche le voci di Michael Kiske degli Helloween e Doogie White con esperienze tra Rainbow e Yngwie Malmsteen; qualcuno dice che anche James LaBrie dei Dream Theater avrebbe riservato alla cosa qualche pensierino ma non esistono fonti certe in merito a tale informazione), a ricoprire il ruolo centrale sul palcoscenico della vergine di ferro fu scelto Blaze Bayley dei Wolfsbane (all’anagrafe Bayley Alexander Cooke).

I fan più oltranzisti della vergine di ferro hanno, fin da subito, letteralmente massacrato il buon Bayley per un motivo più che futile ma equivalente, per loro, ad una sorta di affronto: Bayley non era Bruce Dickinson, era diverso da Bruce Dickinson, non sapeva nemmeno lontanamente come fare, secondo loro, a raggiungere i livelli di Bruce Dickinson. Sembrerebbe un gravissimo errore, in verità, pensare di rimediare ad una sostituzione con una copia conforme a qualcosa che non era nemmeno l’elemento originale. Proprio i fan più oltranzisti in assoluto della leggendaria heavy metal band inglese, infatti, molto probabilmente dimenticavano (e dimenticano tuttora; figurarsi che qualcuno è arrivato a non poterne più nemmeno di Dickinson) che proprio quel dio incarnato nel paladino Bruce Dickinson fu scelto per un cambiamento radicale che avrebbe portato dagli esordi più marcatamente hard rock del primo eponimo capolavoro (e di parte del successivo e seminale Killers), alle gemme che avrebbero letteralmente dato avvio allo sviluppo del genere heavy metal partendo dal suo distaccamento proprio da padri stilistici e spirituali quali Black Sabbath, Black Widow, Blue Oyster Cult, Deep Purple di secondo periodo e Led Zeppelin. In poche parole, quello che proprio i fan più oltranzisti hanno sempre venerato come summa assoluta del motivo stesso del restare in vita al mondo era il risultato di un consistente cambiamento stilistico. Perché, allora, opporsi così aspramente adesso, dopo più di dieci anni di grandi capolavori e fortune desiderosi, comunque, di un attimo di respiro differente?

Mesi e mesi di prove con Bayley al microfono servirono, dunque, ad Harris e soci per ricercare e definire una più o meno nuova forma coincidente con un possibilmente rinnovato marchio Iron Maiden. Fare di necessità virtù, insomma, dal momento che il cambiamento frontale doveva essere apportato per forza di cose, pena lo scioglimento del gruppo. Bisognava, dunque, sopperire in un modo o nell’altro a quella grande incognita derivante da un sostanziale nuovo inizio. Le quattro “vergini” sopravviventi (Harris, Murray, Gers e McBrain), in tal senso, non si danno affatto per vinte e, anzi, maturano la ferrea volontà di sperimentare, possibilmente, nuove strade partendo da dove si era già arrivati. La voce di Bayley è, infatti, completamente diversa sia da quella di Di’ Anno che, soprattutto, dall’impostazione di Dickinson; mentre Di’ Anno era più ruvido e, forse, punkeggiante (d’altra parte, l’epoca era quella) e Dickinson fece scuola in termini di acuti e ottave rivolte verso l’infinito e oltre, Bayley aveva un timbro molto più baritonale ma proveniente da una potenza di petto tale da costruire una voce calda, avvolgente e, al contempo, corposa e deflagrante. Tutto questo potenziale, da alcuni milioni di fan dei Maiden, fu giudicato addirittura mediocre, in primis perché valutato alla cattiva luce di uno sbagliatissimo confronto con l’illustre predecessore, in secondo luogo perché proposto in sede live sulla base di vecchi brani non riadattati alle tonalità del prescelto che, di conseguenza, soffriva non poco nel raggiungere certe vette melodiche. Fatto sta che la band ritorna in studio affamata e comincia di nuovo a registrare brani inediti.

Sia (soprattutto) The X Factor (1995) che, per certi versi, alcuni frangenti del successivo Virtual XI (1998) sono due gioielli non proprio nascosti ma quantomeno offuscati nell’intera e prestigiosa discografia a nome Iron Maiden. Tale inosservanza deriva proprio da un disprezzo di pubblico (e di alcune fette di critica specializzata che, poi, tanto specializzata non si è rivelata, poiché seguace di una sorta di massa titanica da asservire) che, a quasi venti lunghissimi anni di distanza e sulla scia di un perpetuato lassismo critico, continua a fare di quegli album, di una parte dei suoi artefici principali (in particolar modo Steve Harris) e di colui che ne ha garantito, in un modo o nell’altro, la sopravvivenza artistica e (diciamoci la verità) economica (sì, intendiamo proprio Bayley) una sorta di duplice e ingiusto capro espiatorio per il continuo dilagare di una fossilizzazione stilistica che (come è possibile notare soprattutto all’ascolto degli album che, fino ad oggi, fanno seguito all’ultimo lavoro di un certo interesse, vale a dire Dance of death del 2003) ha portato, di fatto, gli Iron Maiden ad essere quasi una sorta di fotocopia sbiadita di se stessi.

Riascoltare con attenzione e prestare maggiore pazienza deduttiva nei confronti principalmente di un album come The X Factor, oggi, senza per forza considerare l’arcinota storia artistica precedente dei suoi autori, può voler dire scoprire, una volta per tutte, un intero mondo non proprio nascosto ma sicuramente ben poco considerato, un mondo mai così personale, sincero e, al contempo, crudo, diretto e realista in riferimento ad una delle principali personalità dei suoi diretti artefici.

Riprendiamo dal nostro scaffale, dunque, la bella edizione in doppio vinile trasparente di The X Factor. La copertina che ci viene presentata è diversa dall’edizione in cd o, meglio, l’edizione in compact disc la contiene come copertina alternativa nel retro del booklet reversibile a piacimento. Il motivo di una tale differenziazione è anche abbastanza deducibile: siamo di fronte, con molta probabilità, alla copertina più violenta, cruda e spossante dell’intera discografia degli Iron Maiden. Niente più disegno fumettistico ma immagine reale, scrupolosamente ricostruita nel dettaglio, forse anche con qualche passaggio digitale ma di certo su basi effettistiche da makeup materiale in puro stile film horror. Al centro dell’immagine vi è la consueta mascotte Ed Hunter resa, stavolta, estremamente reale nella sofferenza più atroce di quella che sembra essere, a tutti gli effetti, una cruenta lobotomizzazione. Il cranio aperto della creatura smembrata e legata al metallico e orribile letto operatorio mostra il suo cervello, organo replicato sottoforma di antico trattato scientifico in altre due piccole immagini all’interno del grande artwork e sul retro della copertina dell’album, sul quale viene inserita, accanto ai titoli dei brani, anche una foto di una sorta di sedia elettrica, in questo caso vuota.

L’impatto con questi cruenti strumenti di morte e tortura, con particolare attenzione, non a caso, al procedimento lobotomizzante, si rendono significativi se si considerano altri due particolari. Il primo risiede all’interno del libretto (stiamo parlando sempre dell’edizione in vinile): sulla sinistra della foto che ritrae la band con Ed al centro sulla sedia elettrica, c’è una di quelle due raffigurazioni cerebrali accademiche e, sopra di essa, alcune lettere sono stampate in maniera differente rispetto a quelle che compongono i testi dei brani del disco; queste lettere formano le ultime due parole dell’ultimo verso della conclusiva The unbeliever, ovvero «drift away», il cui significato è “allontanarsi”, “andare alla deriva”. Il secondo dettaglio, invece, riguarda la foto della band: mentre tutti gli altri membri sono oscuramente vestiti di nero, il batterista Nicko McBrain indossa una t-shirt con su scritto “Eddie would go”, che vuol dire “Eddie vorrebbe andarsene via”.

Tutti questi, in sostanza, sono gli indizi visivi principali che, sommati al profondissimo senso sprigionato da ogni singolo brano (come vedremo), permettono di recuperare la chiave di lettura dell’intero disco così come del preciso momento attraversato dalla band, in particolare dalla persona (nella maniera più intima e personale) di Steve Harris, sostanzialmente il reale Ed Hunter dell’attuale condizione. Lo si deduce a pieno titolo se si richiude il libretto del vinile e lo si osserva nel più semplice dei modi: da un lato permane una fotografia laterale di Ed Hunter durante la lobotomia, colto in un attimo di estrema sofferenza, mentre dall’altro c’è il ritratto proprio di Steve Harris (oltre alla foto di gruppo, ogni membro della band, nell’apertura del libretto, è raffigurato con un ritratto isolato da quelli degli altri componenti).

Si potrebbe affermare, senza troppo timore di scadere in chissà quale grande dichiarazione, che The X Factor è una sorta di vero e proprio requiem spirituale e immaginario rivolto allo Steve Harris del momento. Il maximum leader della band, infatti, proprio in questo periodo sta attraversando una delle fasi in assoluto più difficili della sua intera sua esistenza terrena. Harris è reduce da un divorzio molto difficile e travagliato, ottenuto dopo un lungo periodo di separazione dalla moglie Lorraine (all’incirca due anni) e, come se non bastasse, a rincarare la dose di disagio terreno arriva anche la scomparsa dell’amato padre. Se si aggiunge anche un lungo periodo precedente durante il quale Harris e compagni hanno rischiato seriamente di chiudere baracche e burattini tra le mille enormi difficoltà insite nel tamponare la dipartita di Dickinson, minacciando involontariamente, dunque, lo sfaldamento non soltanto di una band musicale ma di una sorta di vera e propria famiglia, la dose di notti insonni, paure quotidiane e crisi personali cresce a dismisura. Tutto questo mondo reale, parallelo ad un’attività artistica mai così legata alle vicende individuali, si riversa sottoforma di oscuro e terrificante esorcismo in ogni singolo brano che arriva a costruire un disco mai così sofferto come The X Factor.

È proprio Steve Harris, dunque, come sottolineato in particolar modo dall’inserto dell’edizione in vinile in precedenza analizzato, il protagonista assoluto delle narrazioni di questi undici tasselli emotivamente destabilizzanti ma votati all’unico obiettivo riscontrabile in uno sfogo mirato alla ricerca di una nuova posizione prima di tutto interiore, elemento portante che non può non intaccare, di fatto, anche lo stile e le modalità di composizione di una band estremamente rodata in questo senso.

Osservando, allora, prima l’uomo e poi l’artista, si comprende come ogni singolo brano dell’album arrivi a rappresentare, con estrema potenza empatica, tutti quei particolari elementi di paura, disagio e smania di ricerca per nuovi punti di riferimento esistenziali che attanagliano Harris (autore di quasi tutti i testi del disco in questione) da diversi anni a questa parte. Il modo in cui tutti questi pilastri portanti vengono stesi su disco si appoggia ad una prassi ben consolidata dalle abitudini compositive della band in termini testuali, vale a dire l’aggrapparsi continuamente a riferimenti citazionisti di stampo storico, letterario, mitologico e cinematografico.

Il cambio di rotta sia personale che artistico viene messo nero su bianco fin da subito: a sovvertire l’abitudine della band a dare avvio ai propri album con un brano di impatto immediato arriva una vera e propria suite tenebrosa e cangiante di 11 minuti di durata. Sign of the cross, infatti, è forse l’elemento tematico più esorcizzante dell’intero album: forte di un’ispirazione basata sul celeberrimo romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa (Bompiani, 1980), Harris colloca se stesso e l’attenzione dell’ascoltatore più paziente nell’epoca medievale che fa da traino al libro, pur nella sua narrazione a quattro livelli di incassamento. Di questi livelli, quindi, Harris sceglie quello storico che colloca personaggi e lettore nell’epoca in cui l’inquisizione cominciava ad essere contrastata da nuove rotte di pensiero basate su una fervida sete di conoscenza terrena (perno concettuale del testo di Eco, infatti, è l’ultima copia residua del secondo libro della Poetica di Aristotele, scritto in cui cominciava a venir fuori una capacità analitica che oltrepassava l’etica e la morale dominante).

Nell’epoca in cui ci conduce Harris a braccetto col libro di Eco, dunque, siamo in un punto in cui il timore reverenziale per l’elemento religioso raggiunge livelli di follia antieretica ancora maggiori per contrastare l’impatto della nuova cultura occidentale in arrivo. Harris, però, scende ancora di più nel profondo e, partendo da un vero e angoscioso canto gregoriano, si immedesima in un fantomatico peccatore fatto prigioniero dell’inquisizione («Undici uomini di Dio incappucciati / si stagliano contro il cielo / Uno davanti tiene alta una croce / Sono venuti per assolvermi dai peccati»). Ma di quali peccati si sta parlando? Sulla scia metaforica del romanzo di Eco, Harris sembra flagellarsi moralmente con potenziali colpe da espiare, tanto da elevare il profondo senso di inferiorità sotto l’anatema religioso ad allegoria della propria condizione di rabbioso sconforto personale, quasi facendo della storia narrata da Eco una sorta di capro espiatorio per responsabilità che, evidentemente, sente di aver avuto e di avere ancora dopo le reali vicende trascorse.

Emerge, dunque, un senso di inadeguatezza nei confronti della propria condizione attuale, sentimento amplificato da un profondo senso di inferiorità che sfocia in mancanza di meritevolezza autolesionista («Perché allora Dio mi protegge ancora / anche quando non lo merito? / Anche se sono costretto / a fronteggiare tutto questo da solo?»), fino ad invocare comunque l’aiuto divino affinché possa mettere fine a un inarrestabile spirito di inadempienza terrena («Mio Creatore / mio Dio, placherai mai la mia anima?») che fa dell’allontanamento spirituale una metafora della scissione di affetti e predisposizioni umane dalla futilità materialista terrestre («Perso l’amore del cielo là in alto / si è scelta la lussuria della Terra qui in basso»).

Sulla scia dei cambi di rotta melodici e ritmici (ma circolari come in un eterno ritorno significante, ben coadiuvato nella sua oscurità dalla calda voce di Bayley) che riempiono gli 11 minuti del brano facendone una sorta di traduzione sonora dello stato d’animo del protagonista, si approda a Lord of the flies, brano palesemente ispirato all’omonimo romanzo di William Golding del 1954 (Il signore delle mosche). Un’altra forte influenza letteraria, dunque, porta Harris a proseguire la discesa esorcizzante in quella specie di inferno graduale che sta diventando l’album passo dopo passo. Sulla rotta della narrazione di Golding, che vede un gruppo di ordinari ragazzi (isolati dalla civiltà in un contesto solo apparentemente paradisiaco) regredire fino allo stadio più primitivo delle pulsioni umane, il brano condivide tematiche e raffigurazioni emotive con la più distante in scaletta The edge of darkness, ispirata, in questo caso, al dittico cinematografico-letterario composto da quei due enormi capolavori che sono Apocalypse now di Francis Ford Coppola (1979) e Cuore di tenebra di Joseph Conrad (1902) al quale il film di Coppola, in larga parte, si ispira. In entrambi i casi, secondo l’interpretazione cumulativa che Harris estrapola su questi riferimenti artistici per testarli sulla propria stessa pelle inquieta (non risulta molto difficile pensare che il diretto interessato li abbia passati in rassegna più volte per scaricarvi addosso tutte le tensioni più tese e spossanti), c’è una irreversibile esigenza di trovare riscontro altrui di una condizione vissuta in proprio ma temuta in quanto potenzialmente rara e unicamente personale. Così non è se, dunque, Harris può fare di tutti questi riferimenti un grande nucleo di supporto espressivo della propria condizione più intima. Se nei ritmi regolari di Lord of the flies, allora, fa capolino un senso di superomismo celato dalla supremazia religiosa del brano precedente («Vivere sul filo del rasoio ti fa sentire unico / A chi interessa ora cosa è giusto e cosa è sbagliato?»), nell’andirivieni hard/soft di The edge of darkness l’abisso viene toccato con mani e piedi esattamente come accade al Marlow/Willard nel racconto di Conrad/Coppola (con tanto di citazioni direte dal monologo interiore iniziale di Willard nel film di Coppola), il cui insieme semantico mette effettivamente a nudo le condizioni più “bestiali” che, probabilmente, l’uomo Harris ha percepito (se non proprio rischiato di vivere) non riuscendo a sfogare rabbia, depressione e rancore su superfici innocue a terzi («C’è un conflitto in ogni cuore umano / e la tentazione è quella che spinge ad allontanarlo»).

La traduzione più realistica e pratica di questa condizione unicamente interiore viene narrata da un brano come 2 A.M. che riporta al presente la visione oscura di un’esistenza trascorsa in una lobotomia non-vitale e apatica, concettualmente poco distante da quella subita fisicamente da Ed Hunter in copertina. «Questa poltrona, questo letto / queste pareti che crollano nella mia mente» sono l’unica direzione esistenziale che il protagonista di queste storie (non) vede dinanzi a sé ma cerca di far percepire all’esterno a chiunque possa avere ancora compassione o un minimo di spirito di solidarietà nei suoi autolesionisticamente abbandonati confronti («Sono ancora qui / Guardami ancora / Sono ancora qui / per conto mio / sforzandomi di provare a vedere / cosa potrà mai esserci per me»).

Siamo al fianco, in sostanza, proprio di quel “falling down” di episodi interiori che proseguono incessantemente con un altro riferimento cinematografico, ovvero quello che il brano Man on the edge (unico pezzo non scritto da Harris per questo disco ma perfettamente in tema con il concept immaginario) trascende dalla celebre pellicola di Joel Schumacher Un giorno di ordinaria follia (1993). In questo caso, la sottilissima linea che divide il delirio puro da un senso di ragione condivisibile («C’è qualcuno in cielo che guarda giù? / Perché se ti guardi intorno non c’è niente di giusto») emerge ad assumere, paradossalmente, una sorta di valore di violento riscatto individuale definitivamente distaccato da un eventuale appoggio spirituale ultraterreno («È stanco di aspettare, di mentire a questo mondo / nel cielo c’è un buco per gli angeli da baciare»).

Il senso di rabbia e di frustrazione individuale, però, si estende talmente a macchia d’olio da fuoriuscire dalla persona singola per intaccare ancor di più il pensiero sociale, civile, forse anche politico (siamo comunque in pieno periodo bellico in Bosnia ed Erzegovina) che fa da base a una visione del mondo completamente stravolta rispetto al passato. Più della diretta The aftermath, Fortunes of war, allora, fa di Harris (sempre metaforicamente parlando) un reduce di guerra (la “guerra” contro un sé visto come nemico da sconfiggere al fine di una qualunque rinascita, nonché la condizione umana che percepisce la realtà circostante in maniera amplificata da paure e disagi personali) che non riesce più a riconoscere il mondo in cui si ritrova a vivere («Nella notte le visioni sembrano così reali / Ti interessa se vivi o muori? / Quando ridi, in verità, piangi / non sai più cosa sia reale») e finisce per abbandonare sé stesso ad eterne indecisioni («A volte mi sveglio / Sento che la mia anima è spezzata / Mi chiedo se ho la forza di andare avanti») o alle distopie totali di una Blood on the world’s hands che vede il male assoluto anche nella semplice vita quotidiana («Un altro assassinio / Lo stesso giorno una nuova vita») con tanto di terrore dell’uscire anche solo fuori di casa per paura di caderne vittima («E un giorno potrebbe accadere proprio a noi»).

Ma dietro l’angolo si nascondono brevi seppur intensi lampi di coraggio e iniezioni di volontà respiratoria che partono dalle confessioni allo specchio di Look for the truth («Nascondo la debolezza così bene / Questa lama nella mia mente parlerà / È la mia ultima occasione / Stringo i pugni / verso le ombre del passato / Prendo un respiro e grido all’attacco») per arrivare alle consapevolezze di Judgement of Heaven («Ho avuto voglia di suicidarmi / una dozzina di volte o anche di più / Ma questa è la strada più semplice / è la strada più egoista / La cosa più difficile / è andare avanti con la tua vita») che ripartono dalle sottomissioni spirituali autoinflitte dal lungo brano di apertura («Per tutta la vita ho pensato / che mi attendesse il giudizio del cielo») per farne lo strumento di consapevolezza definitiva dell’esistenza di alternative valide in ambito umanistico individuale lanciate dalla conclusiva The unbeliever («Prova a spegnere la rabbia che hai dentro / Perdonati i pochi peccati immortali / Davvero ti interessa quello che pensa la gente? / Sei forte abbastanza per cancellare / il senso di colpa»).

Quello che sono gli Iron Maiden adesso è sulla bocca e nel cuore di tutti. Dopo una sorta di fallimento discografico (Virtual XI del 1998) a cui non ha mai smesso di contribuire, in primis, l’odio di pubblico e critica nei confronti soprattutto di Blaze Bayley (eppure in quell’album c’era quello che è poi diventato un ulteriore cavallo di battaglia osannato sotto i palchi di tutti i concerti dei Maiden, ovvero The clansman), col rientro di Bruce Dickinson e Adrian Smith lo stile di scrittura ed esecuzione della band inglese ha preferito voltare la faccia alla diversificazione per accontentare l’orda di fan sfegatati che chiedevano a gran voce un recupero di chissà quale fonte rivitalizzante a suon di heavy metal puro. Fatto sta che The X Factor, per tutte le ragioni che abbiamo fin qui elencato, non può continuare a rimanere barbaramente isolato nel marasma di produzioni quasi sempre fin troppo somiglianti tra loro e ben meno sincere rispetto all’enorme portata emotiva (alla quale la voce di Bayley ha contribuito non poco) che questo non piccolo gioiello offuscato, quasi venticinque anni fa, è riuscito a mettere in tavola (non è un caso, infatti, se alcuni di quei brani vengono continuamente riproposti attualmente sul palcoscenico).

Perciò, sorge spontanea una domanda: cosa si sarebbe potuto ottenere se la strada intrapresa a partire dal bivio post Dickinson fosse stata unicamente quella battuta nel 1994-1995? Forse non è dato nemmeno saperlo, tutto questo. Forse non conviene nemmeno chiederselo o rifletterci sopra più di tanto, soprattutto con la potenziale spada di Damocle del senno di poi. Al momento, quel frammento di vita terrena (più che di produzione artistica) resta uno dei più grandi “fattori X” della storia del genere.

Un pensiero riguardo “Iron Maiden, The X factor e l’ignorata qualità del cambiamento

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