Una top 10 per il 2022

L’anno scorso non ne avevo molta voglia (anzi, non ne ho proprio avuta) ma stavolta, dai, perché no. In fondo è anche per questo – oltre che per passione personale – che non la smettiamo di macinare dischi, di qualunque formato essi siano. Continuare a cibarcene personalmente ma anche per parlarne tra di noi, che sia in compagnia o attraverso lo schermo di un qualsivoglia dispositivo, è una di quelle cose che ancora ci mantiene svegli, affinché non si estingua mai la voglia di sentirci vivi attraverso i solchi di un album o tra le viscere di una canzone da consigliare, un verso di conforto o una strofa capace di spiegarci il senso della vita meglio di decine di trattati di filosofia. E allora via.

10 – FINARDI / SIGNORILE / CASARANO: “Euphonia suite”

Non sono un ammiratore delle operazioni di recupero di un passato da riproporre come ipotesi per il presente, men che meno se la proposta arriva dal territorio italiano (tranne uno o due casi nel corso della mia storia personale di ascoltatore, ma non di più), le ho sempre viste come un mero tentativo di fare cassa senza mettersi più in gioco. In questo caso, però, posso ricredermi almeno per un attimo e godere di qualcosa di realmente bello, nel vero senso della parola.

Finardi è sempre stato un po’ una garanzia, se non altro, di grande sincerità e spontaneità sia artistica che umana, qualità riscontrabili soltanto in un’anima davvero pura che arriva, in qualche modo, a sublimare un percorso senza pretendere chissà cosa da chissà chi. Voce, sax e pianoforte donano letteralmente nuova vita a gioielli come Soweto, Le ragazze di Osaka o Extraterrestre, concedendo nuova linfa vitale a qualcosa che già ne aveva da vendere. Splendida anche la versione personale di Oceano di Silenzio a firma Battiato e bella l’idea di legare il tutto in forma simil-suite, come fosse il racconto di una vita che arriva a tirare un po’ le somme con grazia e dolcezza prima di proseguire lungo la propria strada, per l’ennesima volta.

9 – ex aequo ARCTIC MONKEYS: “The car” / PORCUPINE TREE: “Closure/continuation”

Ho apprezzato entrambi più o meno allo stesso livello di ricezione emotiva ma nutro ancora qualche pensiero sia sull’uno che sull’altro (la cosa non vuole essere per forza un dato negativo, ci mancherebbe altro).

Le scimmie artiche hanno tirato fuori dal cilindro un gioiellino meravigliosamente beatlesiano. Talmente beatlesiano, però, da farmi quasi ipotizzare quella sorta di perfetto esercizio di stile che ti prende per mano e ti porta dritto dritto a ripescarti gli originali. Ma quelle di The car sono comunque grandi canzoni e tali restano. L’idea è che il disco cresca in seguito a ulteriori ascolti che non tarderanno a reclamare più attenzione.

Quanto a Steven Wilson e soci, ho atteso questo disco come tutti, fan o semplici appassionati e curiosi. Non ne sono rimasto affatto deluso, anzi. Ho riscontrato solo qualche potenziale problemino di accomodamento compositivo da tavolino ma non importa, avercene di scritture ed esecuzioni così meticolose, comunque appassionate per quanto tendenti a una certa idea di perfezione. Ne parlo ampiamente QUI.

8 – OSSI: “Ossi”

L’album d’esordio del nuovo percorso intrapreso da Vittorio Nistri e Simone Tilli dei Deadburger è un lavoro molto importante per una contemporaneità musicale che possa tornare finalmente ad avere un senso comunicativo adeguatamente definibile in quanto tale. Avere qualcosa da dire ed essere capaci di far arrivare il messaggio nella maniera più consona ai propri fini disorsivi non è materia maneggiabile da chiunque. Meglio ancora se il discorso viene portato avanti grazie a un ottimo alternative garage rock tanto classico quanto aderente a una concezione compositiva lisergica e delirante ma, al contempo, perfettamente lucida nelle sue osservazioni soniche e testuali.

A tal proposito, largo a precisi e dettagliati studi antropologici sulla tragicomica situazione nostrana. Ne parlo dettagliatamente su ROCKIT.

7 – MARLENE KUNTZ: “Karma clima”

Godano e soci tornano ad articolare nobili discorsi orientati sulle dinamiche melodiche intermedie di percorso, tralasciando in larga parte i più recenti e graffianti recuperi chitarristici per sposare arrangiamenti analogico-elettronici, indossando una veste complessiva più europea e optando per un concept album importante sia per gli evidenti contenuti che, appunto, per una nuova forma sonica riscontrabile in un possibile nuovo inizio. Non capita a tutti i grandi di avere la voglia e l’energia giusta per rinnovarsi ancora una volta mettendosi in gioco costantemente e senza mezzi termini. Ne ho scritto QUI.

6 – TEDDY DANIELS: “The prisoner”

Altro album d’esordio e altra boccata d’ossigeno. Scarno, immediato, diretto, imperfetto e, per questo, miracolosamente utile a recuperare un minimo di personalità in un mondo di automi, i Teddy Daniels ci ricordano che in Italia sono sempre esistite e continuano a esistere le cantine sudicie di sangue e sudore. Il quintetto cagliaritano ne fa un saggio e lungimirante uso in quanto particolarmente dedito a un reale e salvifico spirito da “attacca il jack e suona” che sfocia in un garage-punk dalle sembianze di una vera e propria scarica voltaica tra capo e collo, deliziosamente noncurante di clic e inutili trucchetti da studio in quanto ampiamente disposto a mettere nero su bianco ogni minima intenzione senza fronzoli tanto nel suono quanto nelle tematiche. Ci ho fatto qualche pensierino su ROCKIT.

5 – PETRINA: “L’età del disordine”

Primo album in lingua italiana per Debora Petrina, gradita anche ad eminenze quali David Byrne, Terry Riley, Elliott Sharp, John Parish o Paolo Fresu, tanto per dirne un paio. Un motivo per un simile apprezzamento dovrà pur esserci ed è presto detto, basta far partire questo disco per rendersene conto. Rottura col proprio passato è la parola d’ordine, ma anche e soprattutto il concetto di sperimentazione reclama la sua parte traendo vita da forme classiche successivamente smembrate e rimodellate in strutture e contenuti. Guardarsi intorno, certo, ma mai alle spalle è una sorta di allenamento per una disciplina morale imprescindibile, in modo tale da visualizzare possibili nuovi orizzonti discorsivi ed emozionali, magari ideologici, sicuramente rivolti a una graduale definizione di un sé artistico che si fa via via identità personale quotidiana. Debora sa scrivere bene – questo è più che assodato – ma riesce anche ad assumere sembianze sempre diverse eppure tutte complementari per la definizione di un percorso individuale assolutamente non di poco conto. Ci riflettevo su ROCKIT.

4 – PELUQUERIA HERNANDEZ: “Raccolta n.4”

Quando vi accorgerete che i peluqueri adagiano ancora le loro mature natiche su troni limitrofi a quelli delle migliori proposte nostrane in assoluto, beh, sarà sempre troppo tardi. Sarebbe l’ora che estro, creatività, simpatia e savoir-faire compositivo ed esecutivo spalanchino loro le porte di qualche palco importante, vista la strabiliante capacità di deliziare orecchie e umore complessivo senza mai rinunciare a qualità della proposta, profondità culturale relativa ai riferimenti di settore e genuinità di arrangiamenti magari derivativi, certo, ma carichi anche di notevole personalità. Se ne discerne QUI.

3 – GIULIO ALDINUCCI: “Real”

Tra i più influenti e interessanti creatori di soundscape dell’anima a livello internazionale, da diversi anni Aldinucci tiene altissima l’asticella delle produzioni ambient sperimentali nostrane. Il suo nuovo lavoro è una magnifica conferma di efficacia e consistenza sia sonora che emozionale ed entra di diritto nell’Olimpo di quelle rare produzioni che consentono di trovare la pace eterna qui e ora. Seminale (osiamo pure dirlo) quanto a a costanza qualitativa e metodiche di ricerca spaziotemporale, ogni respiro, qui, è una carezza per anime inquiete. Il che non vuol dire assenza di frastuono interiore ma capacità di prendere per mano e condurre sulla retta via attraverso selve oscure, rovi spinosi e sentieri scoscesi verso una nuova alba umana, di qualunque natura essa sia.

2 – FONTAINES D.C: “Skinty fia”

Finalmente un album e, soprattutto, una band sbandierata e osannata ai quattro venti che non provochi in me qualcosa di intermedio tra la sonnolenza e la desolazione. Confesso, non mi ero mai curato granché di questi irlandesotti dai tratti un po’ dark e un po’ etilicamente post-qualcosa. Ho provato a farlo in cuffie mentre ero in viaggio in treno e, a dir la verità, da anni non mi capitava di ritornare più volte, d’istinto e con una qualche urgenza di comprensione o anche solo semplice curiosità, su vari brani per meglio assaporarne l’essenza e le intenzioni. Non grandi ma ottime canzoni, innovative per un percorso personale anche se non tanto in ottica generalmente odierna. E sì, quella voce potrà anche non essere di vostro gradimento ma fatevene una ragione, perché su questo tipo di sound è quasi perfetta e aiuta a conferire il vero senso della comunicazione di certe idee di narrazione.

1 – ALESSANDRO SGARITO: “Il giorno prima”

Ci avete fracassato e ancora continuate a frantumarci gli zebedei coi “dischi da lockdown” ma solo due di quelli, sulla faccia di ciò che resta della Terra, ne portano dentro il senso più profondo e realmente tangibile: Ghost V-VI dei Nine Inch Nails e questo magnifico esordio solista di una metà degli Agate Rollings.

Anche se pronto già da un po’ di tempo prima dell’arrivo falcidiante del virus maledetto, Sgarito ha usufruito della comune condizione isolante per amplificare a dismisura una visione del mondo magari melanconica e non propriamente lungimirante – in termini di speranza umana intergenerazionale – ma fondamentale per affilare alla perfezione la lama del suono più accoratamente in grado di fare proselitismo tra chi non vede proprio tutta questa grande luce nelle ipotesi di rinnovamento animistico tanto spifferate da spot e inserzioni pubblicitarie. Non è un rifiuto categorico di una condizione planetaria ripudiata con disprezzo e totale distacco isolazionista, ma una ulteriore legittimazione di un diverso e non comune stato d’animo come modalità parallela dello stare al mondo senza doversi per forza accodare a un’ideologia comune.

Meno dilatazioni – che comunque ci sono e si mantengono emotivamente portanti – e più riflessioni a sei corde in quello che appare, a tutti gli effetti, come una sorta di vero e proprio romanzo per immagini oniriche e, soprattutto, mnemoniche. Splendidi anche gli interventi di Joyello, Angelo Olivieri ed Ewa Lrk.

L’album, per il momento, esiste solo in streaming e download digitale. Se ancora non lo avete fatto, vi invito caldamente a recuperarne la bellezza QUI.

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