La musica tra il vinile e lo streaming. Riflessioni antropologiche sui modi di approcciare l’esperienza sonora attuale

Lo so bene, mi sono documentato almeno un po’: quello di cui sto per parlare ha preso forma quattro o cinque anni fa. Nello specifico, però, non è sul prodotto a cui farò riferimento che voglio focalizzare l’attenzione e il perno del discorso, bensì su ciò che di ben più vasto quel prodotto – né più né meno rispetto ai suoi predecessori o contemporanei, sia pure, come in questo caso, in linea meno eclatante e non così stupefacente – riesce a scatenare nella mente e nell’animo di chi, come me, non l’ha mai data vinta, in tutto e per tutto, ai fautori della liquidità esistenziale. Certo, non a livelli assolutisti, visto che di alcuni aspetti della liquidità, intesa nel senso baumaniano del termine, ce ne serviamo felicemente un po’ tutti – incluso il sottoscritto – solo con una cognizione di causa nettamente più lucida rispetto a chi è approdato in questo mondo senza mai maturare un benché minimo interesse su come si chiami mai quel pezzo di cartone la cui immagine stampata in superficie tanto assomiglia a quella che dopodomani getterà via dal suo smartphone.

Mentre il sottoscritto rinnovava, come di consueto, l’eterno duello con il proprio personalissimo senso di curiosità rivolto ai campi artistici prediletti (musica, cinema e letteratura in primis), non senza quella dose di timore che ogni volta sbuca fuori dal nido in cui dimora – sostanzialmente tra il petto e la gola, con un mai assente incremento cardiaco a fare da catalizzatore – alla sola vista del numero di uscite recensite da riviste apprezzate e seguite (Rockerilla, Blow-Up, Cinecritica, Rivista del Cinematografo, ma anche tanti siti internet; anzi, vi si dirà di più: a scatenare la serie di riflessioni su quanto si sta per scrivere è stato il sito di Red Ronnie), è successo questo.

Il signor Jack White, ex capostipite dei White Stripes (quelli di Seven nation army; “pooo popoppopooppoooooo pooo” per i meno abbienti in termini di quoziente intellettivo) nel giugno 2014 dava alle stampe il suo secondo lavoro solista intitolato Lazaretto. Un album detentore di una sostanza complessiva piuttosto pregevole, con tanti spunti che partono dai territori del rock più granitico, del blues ma anche del garage più viscerale per poi giocare con arrangiamenti e strutture compositive (come è ormai abitudine del buon White a partire dal progetto Raconteurs, passando per quello a nome Dead Weather). Ma in Lazaretto, oltre alla caratura musicale, c’è tutta una serie di caratteristiche oggettive (nel senso, proprio, di riferimento all’oggetto) delle quali non si può non tener conto, specie se il gingillo in questione, per noi feticisti musicali (non più di tanto, in verità, e capirete presto perché), è la sua edizione in vinile. O meglio: “Ultra LP”. Cerchiamo di spiegarci.

La versione in vinile di Lazaretto di Jack White (prodotto studiato approfonditamente grazie alla libertà creativa concessa dal possedere una propria etichetta, la Third Man Records, che proprio col vinile gioca nelle sue produzioni intavolando una vera e propria ricerca di settore; vedere alla voce “triple decker record”) è qualcosa di stupefacente. Ed è già questo il punto: stupire, impressionare, incuriosire. Vocaboli sempre più in disuso, per quanto riguarda il dizionario del moderno linguaggio interiore soprattutto italiano. E perché l’edizione in vinile di Lazaretto è qualcosa di stupefacente? È presto detto: perché è proprio la sua conformazione di oggetto ad assumere un valore artistico (e anche ludico, non dimentichiamocelo mai) e, per di più, di costruzione inedita nella sua innovazione concettuale, oltre che tecnica. Vediamo la cosa più nello specifico.

Quello che il buon White, a nome della sua Third Man Records, definisce come “Ultra Lp” è un prodotto di più che pregevole manifattura. Per ribadire l’importanza estetica, al pari di quella audiofonica, del formato long playing come oggetto artistico, in quanto detentore di un suono nettamente differente dalla liquidità e dalla piattezza di un file audio o dall’immediatezza immutabile di un compact disc (il suono del vinile è di derivazione analogica, quindi conferisce tutta una sterminata sinusoide di suoni intermedi che il cd, forte della sua conformazione binaria, non riesce a riprodurre a dovere pur nella più elevata frequenza di campionamento, cedendo il passo ai vari dvd audio, file “flac” e simili: provate a mettere su un piatto ad alta fedeltà The wall dei Pink Floyd e poi ne parliamo), ciò che emerge dall’idea innovativa – e geniale perché dettata da vera passione e conoscenza nei confronti del mezzo – di White è l’impulso a fare del formato vinile un materiale perfettamente capace di restituire proprio un godimento estetico, oltre che sonoro (non si spiegherebbe altrimenti il proliferare, su Youtube, di video che riproducono, sì, determinate canzoni, ma lo fanno mostrando il disco che gira sul piatto).

Se tiriamo fuori l’edizione in vinile di Lazaretto dalla sua busta, notiamo già un primissimo particolare a vista: il lato A è normalmente lucido e splendente come quello di ogni 33 giri che si rispetti, mentre il lato B è costruito su un vinile ben più opaco in quanto direttamente collegabile al materiale utilizzato agli albori del formato per la costruzione dei fatidici 78 giri. Già questo è un dettaglio non di poco conto, poiché non solo testimonia la passione e la conoscenza del suo fautore ma – diciamo pure filologicamente – tornando ideologicamente indietro nel tempo, prepara il terreno proprio a quel tentativo di godimento ludico dell’oggetto in questione (a un tempo, cioè, in cui il formato in vinile non solo era l’unico in circolazione ma era detentore di svago ed espressione passionale in quanto supporto capace di conservare e riprodurre composizioni in precedenza ascoltabili unicamente in sede di esecuzione dal vivo – eccezion fatta per gli antichi casi di cilindro fonografico, naturalmente). Quando poi adagiamo il disco di White sul piatto del giradischi in movimento, ci accorgiamo di tutta una serie entusiasmante di dettagli puramente tecnici che, però, condizionano anche e soprattutto l’ascolto dell’album stesso in quanto opera costituita da brani in successione (la cui scaletta, tra l’altro, è diversa da quella dell’edizione in cd). Se, come di consueto, caliamo la puntina sul primo solco del lato A, ci accorgiamo che, ciò che fuoriesce dagli altoparlanti è soltanto un suono in “fade out” che culmina in un loop eterno di feedback e distorsioni. Incuriositi, osserviamo la puntina non procedere nel suo regolare percorso sui solchi del vinile, da destra verso sinistra, ma rimanere stazionaria sul bordo del lato A. Cosa diamine sta succedendo? Semplice: essendo, il disco in vinile, costituito da solchi sonori – nei quali viaggia la puntina del giradischi – che formano una grande spirale che va dal bordo esterno del disco fino al suo centro (da destra verso sinistra, appunto), ci ritroviamo dinanzi ad una facciata (il lato A) costruita sulla base di una spirale inversa. Per ascoltare i brani del lato A, quindi, dobbiamo adagiare la puntina non sul bordo del disco, bensì alla fine del lato, vale a dire quel centro che, in questo caso, rappresenta l’inizio sonoro dell’album. Vedremo, così, la puntina viaggiare non da destra verso sinistra ma da sinistra verso destra (dal centro verso l’esterno) e il disco suonare regolarmente (e bene).

Non è strabiliante, una trovata del genere? Pensate anche solo all’ingegno tecnico messo in atto per la costruzione di una facciata simile. È deliziosamente spaventoso, specie se poi, adagiando la puntina in questo modo per cominciare la riproduzione del lato A, siamo portati a fare un altro balzo di stupore da un dettaglio strepitoso: guardando il centro del disco dall’alto, ci accorgeremo della presenza di un vero e proprio ologramma (creato dallo specialista in illusioni ottiche Tristan Duke) a forma di angelo che, col movimento del disco, volteggia liberamente sotto il nostro naso.

Mettiamo caso, in più, che, adagiando la puntina al centro del disco – cosa possibile, attenzione, quando il nostro giradischi non ha il ritorno automatico del braccio meccanico a fine lato – proprio il braccio meccanico ci sfugga di mano e vada a poggiarsi per sbaglio sull’etichetta del vinile. Quello che sentiremo negli altoparlanti non sarà solo uno scratch indistinto, ma la percezione di un brano musicale nascosto. Ebbene sì: il centro dei due lati dell’album nasconde, sotto l’etichetta, dei solchi che riproducono due brani, uno da ascoltare mandando il disco a 45 giri, l’altro mandandolo addirittura a 78 giri.

Ma la cosa che ha fatto sobbalzare di incredulità il sottoscritto è la seguente. Il primo brano del lato B, Just one drink, ha un inizio differente (acustico o elettrico) a seconda di come si posiziona la puntina sul disco. In pratica, se mettiamo la puntina due volte a caso sull’inizio del brano, sentiremo, la prima volta, un’introduzione acustica mentre, la seconda volta, un’introduzione elettrica: in sostanza, due versioni dello stesso brano contenute nello stesso spazio ma in differenti solchi. È proprio questa la geniale trovata tecnica che rende possibile una meraviglia simile: la costruzione di due spirali parallele di solchi (una con su registrata l’introduzione acustica, una contenente quella elettrica) che, nel mezzo del loro percorso, confluiscono in quella che poi dà inizio alla spirale complessiva che porta la puntina fino al termine del lato. Amici esperti e appassionati mi comunicano che una soluzione del genere era già stata adottata per certi 12″ dance e house. Personalmente, qualche mese prima della scoperta del vinile di White, sono stato talmente sciocco da credere che la stampa vinilica di Opiate dei Tool fosse difettosa sul primo brano del lato B quando, in realtà, si trattava proprio di una doppia spirale parallela che, tra le sembianze di Cold and ugly, nascondeva la ghost track della versione in CD, The gaping lotus experience.

Tutta questa pazzesca serie di elementi non può non scuotere l’animo e le emozioni di chiunque, dall’anagraficamente ben conscio dell’esistenza del mezzo ai più inconsapevoli “nativi digitali”. Come si diceva in precedenza, è proprio questo il grande risultato: la dimostrazione che la musica può essere oggetto d’arte e, quindi, elemento anche ludico (considerazione che chi apprezza specialmente il vinile fa da sempre nella sua ricerca di edizioni particolari o con copertine differenti se non proprio creative: viene in mente, a un primo pensiero, la prima edizione di Stand up dei Jethro Tull con un pop-up di cartone che innalza le figurine dei membri della band alla sua apertura; o la prima stampa di L’uomo degli Osanna che diventa un poster, così come lo diventa l’apertura in quattro del live di Joe Cocker Mad dogs & englishmen; si apriva in quattro anche il vinile di No code dei Pearl Jam, ma per contenere buste e cartonati sessualmente appetibili per i veri appassionati; ci sarà, insomma, un motivo, se molte ristampe in vinile odierne riproducono fedelmente cose del genere). Naturalmente, sarebbe nettamente meglio averne passione, pena la non (o scarsa) riuscita del gioco.

Nel corso degli ultimi cinque o sei anni e forse anche più, i dischi in vinile – malgrado certi prezzi siano seriamente da ergastolo: le industrie, economicamente, non riusciranno mai a trattenersi dal fare la loro sporca parte – hanno incrementato il loro bottino di vendite, a tal punto che i produttori più improbabili hanno scelto di mettere sul mercato le loro versioni di giradischi più improponibili (il peggio del peggio è quello che trasforma il suono catturato dalla puntina in mp3 direttamente su chiavetta usb: l’orrore). Da dove viene questo dato inversamente proporzionale a quello delle vendite in compact disc o tramite piattaforme digitali? Innanzitutto da una coscienza tutt’altro che sottosviluppata, ovvero capace di comprendere come la musica su supporto materiale (il vinile in primo luogo, ma anche il cd, per quanto in misura molto inferiore vista la facilità con cui, oggi, lo si può trasformare in un mp3, un’opportunità impensabile fino ai primi anni 2000 – e stiamo parlando di un formato comunque in circolazione dal 1982) non sia mai morta ma abbia navigato soltanto in acque stagnanti, raggiunta solo da chi ha sempre amato e apprezzato l’oggetto in questione.

Ma c’è un altro elemento – sostanzialmente intellettuale oltre che puramente collezionistico – capace di concorrere a un simile recupero (che recupero non è, ma lo abbiamo già detto proprio adesso), ed è la considerazione del disco in vinile (come anche alcune edizioni in cd) al pari di una vera e propria opera d’arte (qualora ve ne siano le caratteristiche, ca va sans dire). Vi siete mai chiesti perché in giro per il mondo, anche in Italia, si continui ad organizzare mostre e mercati di dischi in vinile? Come mai migliaia e migliaia di persone affollano fiere di imponenza continentale organizzate in luoghi come Utrecht (Paesi Bassi), Austin (Texas, Usa) ma anche Milano (Vinilmania) alla ricerca di questo o quel pezzo più o meno raro, più o meno pregiato, più o meno di valore?

Record Store Day a parte (la fatidica festa dei negozi di dischi che coinvolge un mondo intero di appassionati con edizioni speciali e ristampe a tiratura limitata, e invita i meno interessati a girovagare tra gli scaffali per provare a maturare una certa curiosità per la cosa; gli manca giusto un po’ di buon senso nel proporre prezzi onesti ma lasciamo perdere), da sempre si mantiene viva una enorme fascinazione per il disco in vinile come oggetto di vero e proprio culto, sia sonoro che estetico. Non si tratta solo di feticismo, ma di qualcosa che coinvolge intere comunità e numerosissime personalità dotate di un interesse individuale che sfocia serenamente in una passione talmente forte da diventare non solo necessità collezionistica, ma soprattutto fonte di grande conoscenza storico-artistica nel momento in cui ci si va a rapportare con oggetti che, in sé, recano un mondo con una storia ben precisa da raccontare. Se un tizio stacca un assegno considerevole per la cosiddetta “butcher cover” di Yesterday and today dei Beatles, non è solo perché vuole possedere un oggetto di valore, ma è anche per il motivo e il contesto storico che quel valore l’ha generato (la prima stampa del disco mostrava in copertina i quattro di Liverpool in camice da macellaio, “butcher”, con in mano bambole fatte a pezzi e, addosso, schizzi di sangue; tra le varie leggendarie motivazioni date alla scelta di quell’immagine, c’era anche il fatto che Paul McCartney l’avrebbe definita come “il nostro commento sulla guerra in Vietnam”. Fatto sta che quelle copie furono ritirate dal mercato e, ad oggi, risultano rarissime e preziose, specialmente quelle stereofoniche di risoluzione più pregiata. Per non parlare di quelle con la copertina incriminata nascosta da quella più ordinaria su di essa incollata). Si tratta di una situazione pressappoco simile a quella di un collezionista d’arte o gallerista che può dimenarsi a dismisura nella ricerca delle versioni di magazzino dell’urlo di Munch, tanto per dirne una.

Proprio il record Store Day, a questi livelli, rischia di risultare un controsenso perché – soprattutto in Italia, ma come non prevederlo – cela il desiderio di tornaconto industriale alle spalle di quella che, in verità, dovrebbe essere preservata in qualità di passione dal principale valore culturale. Ma, come accennato, meglio lasciar perdere questo discorso industrialmente specifico.

Nella stessa epoca in cui le vendite di dischi in formato vinile (long playing a 33 giri) sono aumentate a dismisura rispetto alla decade precedente, intere generazioni di scienziati dell hi-tech audiovisivo si scannano per la supremazia assoluta sul pianeta connesso. Stando a quanto riporta il Corriere Economia del 12 settembre 2016, non è nemmeno più il download lo strumento di fruizione musicale (e audiovisiva) principale, bensì lo streaming (cioè la trasmissione di musica o video tramite internet, per cui basta semplicemente non più impiegare un minimo di tempo per scaricare un file ma cliccare sul tasto play virtuale per godere istantaneamente di un brano o un intero album quando non di una tanto sospirata playlist). “Per la prima volta, l’anno scorso il suo fatturato (dell’ascolto di musica in streaming, ndr) ha superato sia quello dei download digitali sia quello dei cd e album fisici negli Stati uniti, il mercato più importante”, si legge a pagina 2 del suddetto numero del Corriere Economia in un articolo a firma Maria Teresa Cometto. Al di là del fattore pirateria (lasciamola da parte in questo discorso generale), pare che, dopo iTunes, sia Amazon il miglior venditore al mondo di musica anche in streaming. Dal momento che l’intero pianeta è connesso in rete 24 ore su 24 e può fare praticamente di tutto con un semplice telefonino, tocca capire se questa nuova soluzione su vastissima scala (lo streaming) sia utile a qualcosa (e in che modo) oltre a rappresentare l’ennesimo e ultimo tentativo di vendere aria fritta a intere generazioni umane considerate sempre di più come mero ammasso di consumatori. Poco importa, insomma, se circa un quinto di tutto ciò che si può trovare nell’universo della rete non sia stato mai cliccato neanche una sola volta. L’importante è che c’è perché ci deve essere, punto e basta.

L’idea che in prima istanza si potrà avanzare rispetto a una simile opzione di mercato riguarda un discorso prevalentemente antropologico in termini di interesse generale. Dipende dalle generazioni con cui si ha a che fare, in definitiva, anche se con le dovute eccezioni. Cerchiamo di spiegare.

Il sottoscritto fa parte, in fin dei conti, della cosiddetta “generazione Y” composta dai nati tra gli anni ’80 e ’90. Meno giovane di altri, sostanzialmente i ventenni, lo scrivente viaggia con, sulle spalle, un cospicuo bagaglio proveniente dall’aver vissuto per intero e sulla pelle il passaggio dai supporti analogici a quelli digitali che ora dominano l’universo. Orbene, il sottoscritto non freme nel detenere la smania del download selvaggio anche se ne fa ampiamente uso prevalentemente per conoscenza. Il dilemma sta in un dato di fatto inequivocabile: malgrado le disposizioni economiche non siano delle più sorridenti e, soprattutto, non avendo altri particolari interessi a parità di prezzo, quando una cosa (un disco, un film, un libro) al sottoscritto piace davvero, costui la compra per goderne pienamente in qualità di opera d’arte. Arriviamo al punto: per quasi l’intero corpus degli attuali ventenni, questo è un discorso che non ha alcun senso. Perché spendere soldi per un oggetto nero circolare (a volte colorato per attirare un po’ più di attenzione, se non altro, grazie al fascino cromatico) che nemmeno si può far suonare visto che non si dispone di un giradischi (in tanti lo chiamano “lettore di vinili”: orrore bis), quando ci si può, ad esempio, ingozzare di birre o comunque scegliere ciò che maggiormente aggrada i gusti personali per la stessa modica cifra? Ma c’è anche un estremo opposto: molti di questi neo-ventenni – li puoi vedere coi tuoi occhi quasi ad ogni ingresso in un megastore – sono affascinati dal formato in vinile perché ne sentono parlare a destra e a manca e, pur non sapendo di cosa si tratta, magari ne acquistano una copia qualunque (fosse anche di un artista apprezzato) che poi resta lì sul caminetto a fare la muffa perché in casa non c’è un giradischi o, se c’è, è un vecchio Lesa degli anni ’60 appartenuto ai genitori adolescenti e sfortunatamente non più funzionante. Fa piacere, insomma, la fascinazione verso il formato anche solo per sentito dire, ma la totale disinformazione riguardo il suo reale utilizzo – che va ben oltre il solo dato estetico, soprattutto in casi come quello dell’Ultra LP di Jack White che, grazie alla sua conformazione, offre una proposta unica di fruizione effettiva dell’opera d’arte – fa cadere le braccia a chi invoca una sostanziale comprensione e condivisione della propria stessa passione, nella speranza che questa non sia più rappresentata come una deviazione feticistica ma come ciò che è realmente (ripetiamo): fruizione effettiva dell’opera d’arte.

Morale della favola e, al contempo, domanda al gentile lettore: forte del tuo bagaglio più o meno ampio in termini di fruizione prevalentemente musicale, da che parte stai? Ti affascina un ologramma sprigionato da una superficie in vinile che, in più, contiene soluzioni magicamente multiple, o ti basta fare zapping tra una piattaforma virtuale e l’altra? Dipenderà, oltre che dalle tue abitudini e dalla tua derivazione generazionale (sempre con le dovute eccezioni al pensiero dominante), forse anche un po’ da che tipo di persona sei. In fin dei conti, nell’appiattimento globale, c’è già chi si è stufato anche della condivisione in streaming.

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