Motorpsycho – Yay! (Stickman Records, 2023)

Allora non è stato un pur non così fugace fuoco di paglia. Allora quell’anima docile, delicata e, al contempo, profondamente sofisticata e acculturata, sprigionata in quella magnifica trilogia californiana di primi anni duemila, con sprazzi oltreoceanici già ancora prima assemblati e posti in essere per dimostrare la reale essenza di musicisti e compositori – in quel precoce caso più giocherelloni che realmente inclini a una concreta svolta artistica – davvero continua ad esistere e non ha mai abbandonato mente e corpo di gente che nasce, cresce, si nutre e passerà a miglior vita abbracciando dischi più o meno (o per niente) conosciuti provenienti da ogni possibile sfumatura di avant-prog, certo, ma anche di tanta (tantissima) psichedelia d’annata, terreno sempre fertile per soluzioni liriche e melodiche, nonché immaginifiche, di fattura verosimilmente sublime quanto a trasporto e capacità di rapimento sensoriale.

No. Let them eat cake (2000), Phanerothyme (2001) e It’s a love cult (2002) non sono stati affatto un caso, mai. E non lo sono stati neanche The tussler e, men che meno, la momentanea estensione amicale denominata The international tussler society. Perché lo sguardo che, dai deserti di neve e ghiaccio norvegesi, approdava sulla Baia di San Francisco per evadere dal freddo del presente e cibarsi di sole, vento e interminabili highway da una costa all’altra della capacità (e del folle desiderio) di essere qui e ora ma altrove si è rivelato a dir poco fondamentale in termini di sopravvivenza. Non lo dico io, lo dice Bent Saether nelle note interne dell’artwork di Yay!, splendido, magnifico e quasi commovente nuovo lavoro in studio dei suoi eterni Motorpsycho: “Questo album è stato scritto a Trondheim (città di origine della band, ndr) approssimativamente durante il primo anno di peste (inutile spiegare l’ovvio riferimento, ndr) […] È stato suonato e prodotto da Tomas Järmyr, Hans Magnus Ryan e Bent Saether, che all’epoca si sentivano tutti un po’ persi e preoccupati e avevano bisogno di un po’ di musica relativamente semplice con cui riempire la testa per cercare di dare un senso alle cose. Alla fine ha funzionato”.

Evadere con lo sguardo interiore, dunque, non solo – come accadde – per sentirsi dove il proprio background vorrebbe farti essere, ma per rinascere letteralmente. Tornare su quei passi per approdare di nuovo dove le acque erano e sono più quiete, dove i raggi del sole non filtrano attraverso finestre chiuse di mura altrettanto circoscritte attorno a uno stato mentale che rischia di impantanarsi sulle ruvidezze di un presente troppo tetro, contorto, duro e oscuro per mostrare la sua pur viva forza d’animo.

Accantonati, allora, (momentaneamente? E chi potrà mai saperlo) i ruggiti di quindici anni quasi consecutivi di puro hard rock e avant-prog tanto granitico quanto complesso nelle strutture e nelle facoltà di ricezione (con sempre più che considerevoli risultati in sede live, indubbiamente), Bent, “Snah” e, in alcuni frangenti, Järmyr (dimissionario ma, anche qui, efficacissimo ed estremamente versatile dietro le pelli a centellinare ogni tocco e ogni metrica tanto di accompagnamento quanto di architettura sostenitrice) hanno tirato fuori un vero e proprio gioiello di creatività come non ne proponevano da tempo. Da quella trilogia lì, per l’appunto. Certo, molti degli album del post-Gebhardt (batterista storico e altro grande compositore) da Black hole / Blank canvas (2006) a Ancient astronauts (2022) – Behind the sun (2014) e Here be monsters (2016), forse, su tutti – contemplavano, qua e là, spunti similari sempre in funzione, però, di corpose diramazioni dedite a potenzialmente infinite aperture improvvisative, ma raramente si era tornati sui passi di un vero e proprio songwriting capace, per certi versi oggi più che allora, di creare spaccature nel granito e lasciarsi circondare da luce e ossigeno purificatore per nuove idee e nuovi scampoli di esistenza oltre il baratro delle incertezze e di quelle inquietudini ridestate e amplificate dal confinamento e dall’odierna interpretazione dell’essere e dell’esserci.

Yay!, quindi, col suo ritorno a quelle ariose solarità di inizio millennio, ha ora più che mai il compito di spalancare porte e portoni per scacciare i demoni e uscire di nuovo allo scoperto nel deserto del proprio io, sotto cieli immensi e scampoli di pioggia necessari per lavare via il peso del tempo e degli inganni autoinflitti. E ci riesce egregiamente attraverso il puro splendore di coniugazioni Crosby, Stills & Nash sia nell’incedere melodico che nei superlativi intrecci vocali (Sentinels), immersioni in tanta cara psichedelia ’60 e ’70 ma anche in certi esperimenti che spesso trovarono luogo nelle sterminate serie di Ep (praticamente una discografia parallela), con America e Allman Brothers sempre a fare capolino dietro l’angolo per soluzioni creative di eccellente gusto sensoriale e incommensurabile trasporto emozionale (che magnificenza le parti di chitarra in Hotel daedalus, che splendore gli ampi respiri di The rapture e quanta sublimazione negli spin-off alt-art-folk di Dank state e Loch meaninglessness & the mull of dull).

C’era davvero tanto bisogno di tirare il fiato e ricominciare, insomma. Ed eccoci serviti nel migliore dei modi.

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