
Curiosità, accomodamento, accoglienza primigenia. Iniziale coinvolgimento dei sensi, attrazione verso un non visibile che diventa autogenerazione di paesaggi immaginari, gradualmente slegati da un concetto di realtà tangibile. Poi discesa negli abissi di una improvvisa e quasi inaspettata oscurità sensoriale, come fronteggiando sinistri doppelgänger di un mondo che decide di mostrare l’antimateria di cui sono fatti i suoi sogni con rispettivi incubi speculari. Quindi esplosione finale di suoni e visioni interiori in sincrono con l’ascesa di oceani di stratificazione uditiva votati al raggiungimento di uno scopo ultimo che parte da decenni di sperimentazione acusmatica e arriva a mostrare, ora, le fattezze di un discernimento esistenziale al passo coi tempi – e non potrebbe essere altrimenti – ma scisso in tanti atomi di spazio e tempo, in tante costellazioni identificabili e definite, nel cui universo di appartenenza ognuna di esse può comunque generare, di per sé, nuovi mondi, altre possibilità, ulteriori considerazioni del reale qui e ora, certo, ma anche e soprattutto in un altrove iperuranico fatto di infinite sovrastrutture con rispettive e interminabili possibilità espressive.
Sono pressappoco queste le distinte fasi vissute personalmente all’ascolto in anteprima e in Dolby Atmos – in quel di Milano su invito – di Oxymore, il nuovo magnifico album di Jean-Michel Jarre.
Stupefacente nella misura in cui può rendersi possibile declinare un simile prodotto discografico pensandolo come compendio di un’intera vita vissuta in parallelo con le più epocali evoluzioni tecnologiche, Oxymore scaraventa letteralmente in secondo piano sia recuperi, rifacimenti e prosecuzioni concettuali (i vari ritorni produttivi su importanti opere passate come Oxygène ed Équinoxe) che escursioni pur lodevoli nella loro matrice quintessenziale (il validissimo Amazônia, ma anche i due volumi collaborativi Electronica). Questo perché pur mantenendo l’accezione – come quasi sempre nella discografia di Jarre – di opera d’arte sonora di derivazione sostanzialmente classica e, di conseguenza, comunicativamente efficace in termini sia stilistici che emozionali attraverso vere e proprie suite esperienziali, Oxymore estende il suo raggio d’azione tanto dal punto di vista storico-cognitivo (la dedica a Pierre Henry, di cui si susseguono, nel corso dell’opera, tantissimi riferimenti sonoramente diretti) – consentendo alla geo-acustica europea di riappropriarsi di una paternità (la musica elettronica in sé, per l’appunto; Schaeffer o Stockhausen, certo, ma anche Berio, Maderna e lo Studio di Fonologia Musicale Rai di Milano) in scia con l’evoluzione secolare del concetto stesso di composizione – quanto sul versante futuristico in termini di continuo e inarrestabile spirito creativo in simbiosi con una inossidabile curiosità per l’utilizzo di sempre nuove soluzioni generative, siano esse innestate sull’utilizzo di sempre vegeti congegni analogici o calibrate su hardware e software di ultimissima generazione (e qui ci sarebbe da aprire un serio dibattito su che senso possa mai sprigionare ancora oggi, in presenza di opere fruibili semplicemente in quanto prodotti dotati di forma e contenuto, il continuo scontrarsi tra puristi della valvola e ingegneri sonico-informatici, ma sorvoliamo).
Non sono un caso, infatti, gli esperimenti che Jarre ha voluto condurre e che, a detta sua, continuerà a porre in essere nel metaverso (attualizzando il più possibile il suo flirt col Guinness dei primati per concerti più vasti e popolosi della storia), dove proprio dalla sua mano dovrebbero a breve venir fuori ulteriori inviti (vedi il progetto Oxyville, una sorta di città virtuale in cui accogliere artisti per masterclass e altri eventi) per esperienze extracorporee magari ancora non perfettamente definite ma, senza dubbio, fondative in termini di trampolino di lancio verso un’ipotesi di produzione e ricezione musicale futura (altro dibattito papabile: a chi ci si vorrebbe rivolgere, esattamente, con simili sperimentalismi espressivi, quando la stragrande maggioranza degli appartenenti alle nuove generazioni ascolta qualunque cosa attraverso smartphone e sterili casse bluetooth portatili? Sorvoliamo, anche qui).

Esperimenti che, dal punto di vista sonicamente oggettivo, trovano proprio in Oxymore un ragionevole e trascinante traguardo, considerando l’effettiva efficacia anche corporea di un lavoro estremamente denso (pensato proprio per la fruizione in Dolby Atmos), letteralmente strabordante di suggestioni dark techno e gustosamente complesso, ruvido, sorprendentemente tetro, sinistro, oscuro, quasi apocalittico ma, al contempo, indiscutibilmente metodico (nel senso di molto ben organizzato e definito) e perfettamente in linea col desiderio che un grande compositore e manipolatore di suoni come Jarre può mantenere quanto a evoluzione personale in sintonia col progredire dei tempi tecnici.
Quasi come se lo spirito inquieto di Henry (la cui collaborazione con Jarre – resa impossibile dalla sua dipartita – doveva garantire importanti frutti, poi trasmigrati proprio tra le viscere di questo lavoro che ne mantiene frammenti e bozze come incremento contenutistico decisamente non di poco conto) arrivasse a batter cassa reclamando pieni poteri dal substrato di un ipotetico oltretomba uditivo, è bastato davvero soltanto chiudere gli occhi allo spegnersi delle luci in sala, come suggerito dallo stesso Jarre, per ritrovarsi realmente scaraventati in un vortice di sensi e possibili diramazioni esperienziali. Anche se, a tratti, l’apparenza poteva lasciar intuire una predisposizione compositiva di base lievemente monocorde, l’irrefrenabile e sterminato universo di stratificazioni creative è stato ampiamente capace di mozzare il fiato in onore di uno spossamento anche magnificamente fisico, dettato cioè da ritmiche telluriche in efficacissimo supporto anche di innumerevoli spunti concretisti proprio in funzione di una riappropriazione concettuale capace di gettare nuovi semi in possibili nuove direzioni.
Un universo, questo, che, a quanto pare, sarà esaminabile attraverso supporti fisici e digitali comunque strutturati per rendersi efficaci in termini di resa sonora complessiva (l’espressione migliore per uso comune di un’opera del genere potrebbe essere, a intuito, quella insita nell’edizione in doppio vinile – in quanto formato non dedito alla compressione – comprensivo di codice per accedere al master binaurale in altissima qualità). Un universo, questo, nel quale, forse, conviene cominciare a prendere posto se davvero si vuole definire un’identità di ascolto attivo contro ogni ulteriore svendita del dato sonoro come mera fonte di intrattenimento.