
Chi mi conosce e legge fin dai tempi di WakeUpNews, il quotidiano online dal quale ebbe inizio la mia non retribuita carriera giornalistica, sa perfettamente che non mi piace stroncare. Essendomi occupato sempre, per la maggior parte, di gruppi emergenti o poco conosciuti, al parlare negativamente di un album da me non gradito ho sempre preferito non parlare affatto. Ancora oggi, se un album non mi piace proprio per niente e, ovviamente, se non ho l’obbligo professionale di scriverne, preferisco informare l’artista del mio non gradimento (qualora costui mi avesse chiesto una recensione personalmente, come capita spesso ed è sempre un piacere) e spiegargli che preferisco non procedere con la scrittura perché non voglio intralciare negativamente un percorso che, magari, lui sta cercando di portare avanti faticosamente e con sincere speranze, anche se con pochi meriti o poco talento effettivo (caratteristiche che, prima o poi, verrebbero fuori anche in presenza di budget o management miracolosi nello spacciare per buono quello che buono non è. Quindi perché cominciare fin da subito a essere severi e malfidenti? Il tempo è sempre il miglior giudice). Quando si tratta, invece, di recensioni a me assegnate e da compilare per dovere professionale, dinanzi a situazioni del genere cerco sempre di affrontare la cosa (e pare che io ci riesca pure, visto che diversi artisti mi hanno addirittura ringraziato per i consigli messi nero su bianco) innanzitutto con garbo e poi cercando di spiegare, quanto più chiaramente possibile, i motivi per cui credo che quello non sia un buon lavoro, magari provando anche a formulare qualche personale suggerimento proveniente dalla mia pluridecennale esperienza di ascoltatore.
Ma quando mi capita di notare che, al cospetto di un pessimo album sfornato da un grande nome interplanetario, chiunque comincia a mescere lodi immotivate, un po’ per consueto lecchinaggio e un po’ per mantenersi in forma agli occhi dell’opinione pubblica (che di gusto, lo sappiamo bene, ne ha quasi sempre avuto poco), allora (anche se attualmente molto molto meno perché la voglia di battibeccare si è quasi del tutto esaurita) divento una bestia e può capitare che mi prudano le dita e che, di conseguenza, io non riesca a starmene buono con le mani in mano (per quello che conta, poi, capirai, non sono mica Bertoncelli).
Fino ad oggi questo è capitato seriamente solo due volte: la prima con i Muse di The 2nd law e la seconda con i Pink Floyd (o quello che ne rimane) di The endless river (avrei potuto anche con gli U2 ma non ne ebbi voglia). Quelle sono state le mie due uniche grandi stroncature di nomi intoccabili insite in recensioni non richieste e che io stesso, di mia spontanea volontà, ho voluto buttare giù per provare a lasciare, nello sterminato oceano del web, almeno un minuscolo e infinitesimale lamento di disapprovazione contro un nazionale apprezzamento di mediocrità all’unisono. Così, giusto per provare a lasciare un minimo segno ai posteri dicendo “no, guardate, non è tutto oro quel che luccica”.
In entrambi i casi mi sono beccato commenti piccati. Nella situazione Muse arrivarono proprio orde di insulti gratuiti che tanto bene fecero alla visibilità della pagina. Magari poi riporterò anche questo specifico casus belli da queste parti perché, in sostanza, il motivo per cui poco fa mi tornavano in mente quelle due recensioni corrisponde a un pensiero che ogni tanto mi capita di fare mentre lavo i piatti, e cioè: ma tutta quella gente che tanto adorava e difendeva quell’osceno discaccio, oggi, lo ascolta ancora con così tanto piacere?
Su The endless river le testate grosse si sperticarono di lodi nei confronti di quella che, in fin dei conti, altro non era se non un’accozzaglia di scarti da The division bell, sicuramente pubblicata col nobile intento di prestare omaggio all’amico scomparso, Richard Wright, ma oggettivamente troppo anacronistica e priva di senso in termini puramente stilistici (ancor di più se inserita non come uscita bonus ma tra le pubblicazioni ufficiali della storica band). Giusto qualche webzine mi pare avesse azzardato a sostenere opinioni contrarie. Di seguito, riporto quanto scrissi io su WakeUpNews il 7 novembre 2014, allegando anche i commenti ricevuti alla fine dell’articolo.

Titolo: Pink Floyd, The endless river? Un disco orrendo e irritante. Svolgimento:
Record assoluto di (dis)ordini online – e non – tra prevendite, ascolti preventivi, download pirata – con tanto di file taroccati da non si sa chi per far conoscere la sua magnifica arte – e scambio di opinioni da social network (una volta c’era il negozio di dischi con lo stereo sempre acceso). Record altrettanto imbattibile – come ovvio e giusto – di infarti da ansie e attese per quello che, a tutti gli effetti, arriva presentandosi ufficialmente come il nuovo (?) e – pare di capire – ultimissimo disco nientemeno che dei Pink Floyd (vuoi mettere la gioia di dire “ho appena comprato il nuovo album dei Pink Floyd”? Agli occhi della generazione del sottoscritto, per irreparabili motivi anagrafici, è un evento interplanetario). Ma una volta messe da parte gioie ed effusioni varie (infiliamoci dentro anche qualche perplessità nata al momento stesso della divulgazione della notizia), la realtà dei fatti – a nostro sempre sindacabilissimo giudizio – è, a malincuore ma con una certa dose di prevedibilità, una e una sola: The endless river non è altro che un non-disco orribile e irritante. Prendiamo, dunque, un bel respiro e cerchiamo di fare un po’ il punto della situazione, fin dove possibile.
1994. Esce – dopo ben sette anni dal precedente album in studio (lasciamo perdere live, raccolte e box vari) A momentary lapse of reason – il buon The division bell, album non di facilissimo impatto (almeno non immediato) ma denso di significati e spunti molto interessanti (basti, per tutti, il monumentale brano di chiusura High hopes). Il disco vende, come ovvio e prevedibile per la portata della band, circa dodici milioni di copie in tutto il mondo. Qualitativamente, non si discosta molto dal suo predecessore: i ritmi si sono affievoliti nuovamente in funzione di una nuova coinvolgente concezione di psichedelia affidata alla creazione di soundscapes e atmosfere di fondamentale importanza per una qualsivoglia traduzione emotiva dei tasselli che compongono entrambe le opere in questione.
Da circa dieci anni non c’è più Roger Waters a mantenere – più o meno dittatorialmente – le redini compositive e tematiche del gioco. La penna, perciò, è passata ufficialmente a David Gilmour e Richard Wright che – mentre Nick Mason colleziona Ferrari – si innalzano a principali fautori di qualunque cosa provenga dal marchio Pink Floyd. The division bell, in sostanza, è un buon disco, non privo di momenti suggestivi ed emotivamente toccanti (i temi affrontati sono l’impossibilità di comunicazione tra gli esseri umani e il disagio individuale in una realtà irriconoscibile se non attraverso i ricordi). Dopo il successivo live Pulse (1995), però, i Pink Floyd annunciano il loro scioglimento.
2005. Bob Geldof organizza un nuovo evento mastodontico votato alla raccolta fondi a scopi benefici, il Live8. Già protagonista del celebre film tratto dal controverso album The wall (pellicola diretta da Alan Parker e scritta da Roger Waters a completamento di un’opera crossmediale a vastissimo raggio d’azione interpretativo), Geldof conosce personalmente i membri dei Pink Floyd e riesce a convincere sia i restanti che Waters a riunirsi almeno per suonare qualche brano sul palco londinese. I quattro accettano e l’evento arriva ad avere, giustamente, una portata interplanetaria. Dopo le ultime note di Comfortably numb, ogni ipotesi di reunion più duratura viene smentita. Il “canto del cigno” non poteva avere sostanza e valore maggiore.
2014. E invece no. Nel periodo estivo arriva la notizia di un nuovo album dei Pink Floyd che, però, proprio nuovo non è, in quanto costruito su frammenti mai utilizzati provenienti dalle session di The division bell (del quale, tra l’altro, è stata di recente rilasciata anche un’edizione deluxe per i venti anni dall’uscita con inserti di vario calibro, cofanettone che, a quanto pare, ha ulteriormente tenuto fuori quei frammenti, di certo in funzione dell’album in uscita ma comunque concedendo adito ai più immediati sospetti). La prima cosa che balza alla mente dei più normali appassionati della band (non tanto, quindi, dei maggiori seguaci e collezionisti) non è una considerazione, bensì una domanda: perché un album – per giunta non proprio nuovo – dei Pink Floyd nel 2014?
Dopo tutta la trafila formata proprio da quelle ristampe su ristampe riservate a praticamente tutta la discografia dei Pink Floyd, l’unica cosa che mancava tra nuovi missaggi e demo tape ripuliti era, manco a dirlo, proprio un disco di inediti o, per meglio dire, scarti (nemmeno b-sides). E allora ben venga questo non-nuovo The endless river, lo attendiamo molto volentieri perché curiosi di vedere con cosa i nostri sempre amati reduci hanno voluto scegliere di dirci praticamente addio (smentita ancora una volta, almeno fino ad oggi, anche la minima voce di reunion, opzione dovuta anche a cause di forza maggiore visto che, nel frattempo, Richard Wright è venuto a mancare).
Eccolo che arriva, The endless river. Lo salutiamo e lo accogliamo a braccia aperte nel nostro lettore. Ma attenzione, fermi tutti. Cos’è che veramente stiamo ascoltando? Non si riconosce quasi nulla di quello che abbiamo sempre ammirato in ogni differente periodo dei diretti interessati. E ben venga anche questo, certo. Forse la scelta è stata quella di provare ad andare oltre facendo un album quasi interamente strumentale, insomma qualcosa di completamente diverso. Ma no, neanche questo è ufficialmente percepibile perché, sotto sotto, lo stile è rimasto uguale – se non inferiore – a quello di venti e più anni fa. E allora perché tenere le persone sulle spine fino al fatidico momento in cui si arriva ad accorgersi di una simile vuotezza su disco? Andiamo per ordine.
Fatto: The endless river, sia al primo che al secondo e, forse, anche al terzo ascolto, è un disco fondamentalmente inutile, brutto, raccapricciante a dir poco. Perché? Sono passati venti lunghissimi anni dalle ultime esperienze in studio. Proviamo a considerare quelle più rilevanti almeno dei membri che hanno deciso di operare questa discutibilissima scelta. Il primo, David Gilmour, in proprio ha dato alle stampe soltanto due dischi da solista a distanza di ventidue anni l’uno dall’altro (About face del 1984 e On an Island del 2006) e qualche Dvd dal vivo. Il secondo, Nick Mason, ha steso quasi unicamente una manciata di collaborazioni editoriali per la produzione di libri foto-biografici (anche belli) sulla propria band. Insomma, voglia di suonare e continuare a mettermi in gioco per puro amore del mio mestiere saltami addosso. Il che è anche lecito vista la caratura di personalità che non hanno assolutamente più nulla da chiedere né da offrire realmente alla storia della musica dopo quanto di più enorme e seminale già fatto (con Syd Barrett e Roger Waters, però). Non a caso, soprattutto lo stile di Gilmour appare come una delle cose più superate in linea attuale, nello specifico in tutti quegli ormai noiosi e ripetitivi fraseggi slide e bending che cercano di fare da contraltare alle poche, scarne e ormai irritanti melodie “ballad”.
Ascoltando col cuore in mano The endless river (il cui collegamento con The division bell si esprime unicamente nel titolo, penultimo verso della conclusiva High hopes), sembra di avere a che fare, per larga parte, con una ambient music di scuola Brian Eno confluita in una new age alla Mike Oldfield (secondo periodo) fatta a fallo di quadrupede, quasi a caso, densa di riempitivi. E stiamo parlando dei Pink Floyd, una delle band più seminali al mondo la cui ingiustificabile scelta di fare proprio di questo disco l’ultimo tassello ufficiale della propria discografia riempie di rabbia e rancore. Certo, è capitato anche ad altri grandi di chiudere una carriera eccellente con tasselli di infima qualità. Primo su tutti Lou Reed, il cui ultimo album all’attivo è l’inconsiderabile Lulu (2011) al fianco dei Metallica. Lì, però, il buon Lou fu costretto a chiudere la sua enorme carriera da una malattia che avrebbe posto fine ai suoi giorni. Qui, invece, c’è tutta la consapevolezza possibile del voler fare in modo che The endless river sia, “forever and ever”, l’ultimo album dei Pink Floyd.
Non siamo di fronte né a un disco vero e proprio né a una infima compilation di scarti messi lì a caso. Peggio: c’è proprio un lavoro e una cura che, se avesse avuto altra destinazione e marchio, avrebbe prodotto di gran lunga un lavoro meglio considerabile per quanto per nulla innovativo o di particolare interesse.

Fine. Questi, invece, furono i commenti a quanto scritto su quell’album (con mia risposta).
Antonio: Chi ha scritto quest’articolo fa bene ad ascoltare non i Pink Floyd ma qualche gruppetto idiota odierno così ascolterà dei bei motivetti orecchiabili che dopo due settimane nessuno ricorderà più. Questa è ignoranza musicale.
Io (che venivo dall’esperienza Muse, ndr): Aspettavo giudizi forti e, nello specifico, rivolti alla persona e non a quanto scritto facendo tutt’altro che sostenere una propria tesi accettando il dibattito, proprio come fa lei in questo commento. Non conoscendomi, caro Antonio, lei non può affatto sapere – e nemmeno io non conoscendo lei – cosa ascolto e cosa no, cosa mi piace e cosa no. Prima di parlare di ignoranza musicale, sarebbe bene armarsi di sacrosanto e genuino rispetto, una volta tanto. Con queste armi, avrebbe (forse) compreso che il mio articolo è mosso da profondo affetto nei confronti dell’artista in questione. Mi sarebbe piaciuto molto parlare con lei e con chiunque altro di questo disco nella maniera più normale possibile. Vedo che è una cosa ben lungi dall’essere fattibile. Cordiali saluti.
Benny: Sa cos’è riuscito a scatenare in me la sua recensione? Una voglia ancor più grande di ascoltare il BELLISSIMO disco. Anzi, avendo già acquistato il cd, penso proprio che spenderò anche i soldi per l’Lp. Consideri quindi il suo orrendo ed irritante articolo, assolutamente non efficace. P.S. Non accusi di mancanza di rispetto, l’utente che ha commentato prima di me. Lei, con il suo scritto, ha mancato di rispetto a milioni di persone che, a differenza sua, hanno apprezzato il disco (è proprio a queste persone, se esistono, che vorrei tanto rivolgere la domanda che mi viene in mente ogni tanto mentre lavo i piatti, di cui sopra, ndr). Saluti.
Io: E va benissimo, caro “Benny”. Il mio articolo può essere orrendo per lei come per milioni di persone (del cui giudizio porto enorme rispetto, invece), così come per me resta orrendo questo disco. Se lo goda tranquillamente e con tutta la pace che vuole, assolutamente niente in contrario. Saluti.
Benny: A questo punto sarebbe utile sapere qual’è (proprio scritto con l’apostrofo, ndr) secondo lei, un bell’album (non necessariamente Floydiano, ma di recente uscita).
Io: Volentieri. Provi con gli ultimi album di MasCara, Motorpsycho, Thom Yorke, Arcane Roots, Paolo Benvegnù, Pierpaolo Capovilla, Zu, volendo anche il non-nuovo Marlene Kuntz, Ivy Garden of the desert, Marco Maggiore, Thievery Corporation, John Zorn, Aidan Baker, Ulver, Boards of Canada, Mogwai, Boxerin club, Steven Wilson, David Crosby…
Gianluca Palmisano: Caro Stefano. Ho letto il primo paragrafo (e non oltre) del suo – a dir poco – articolo che – a mia vista – e pure difficile da leggere (se leggere significa anche capire). A Stefano! Tu non hai capito un bel tubo di questo album. E non hai capito un tubo della musica e la storia dei Pink Floyd. Prima di parlare di loro, fatti una ricerca e porta rispetto per chi la musica l’ha saputa fare e come. Poi ne riparliamo fra 30 anni, e vediamo se UNO dei musicisti da te citati faranno ancora parlare di se (ehm ehm, ndr). Questo ultimo album dei Pink Floyd non vuole pretendere di essere un nuovo Dark Side, non pretende di arrivare al top delle charts con un singolo. È semplicemente un modo per dire addio alla propria storia in un gruppo, un tributo al scomparso Rick Wright. Ma secondo la tua logica deve necessariamente essere un prodotto, come molti altri che hai citato tu forse…Cmq è chiaro che un giornalista come te vuol cogliere l’occasione per diventare “famoso” andando controcorrente e criticare a più non posso una band che da quasi 50 Anni fa musica, e delle migliori che ce n’è in giro. Saluti.
Io: Caro Gianluca, innanzitutto: piano. Poi, qui stiamo proprio deragliando in merito a giudizi, che vertono – come sempre in questi casi, c’è da farsene una ragione definitivamente – sulla persona e non unicamente sull’opera in questione. Se avesse letto normalmente l’articolo – cosa che ha rifiutato di fare per sua scelta personale visto che proprio non ce la fa a sopportare quello che ho scritto (che non equivale a qualcosa di così trascendentale) o non ne ha voglia – avrebbe molto facilmente capito che: 1) Sto parlando di questo disco e basta, non della storia della musica nè di quella dei Pink Floyd, band che conosco benissimo e adoro fin da quando ero bambino; se parlo dei Pink Floyd, ne parlo per contestualizzare la visione di questa singola opera che – le ricordo – è stata coscientemente selezionata come l’ultimo disco in assoluto dei Pink Floyd, non una raccolta di b-sides o cose del genere; 2) Non è per nulla sinonimo di educazione (ma cosa voglio aspettarmi, poi?) accusarmi di incompetenza perché noi non ci conosciamo. Ho solo espresso il mio giudizio (tutt’altro che privo di conoscenze) su un prodotto osannato quasi da chiunque che, però, purtroppo, a me ha fatto rivoltare lo stomaco. A me, sia chiaro. A lei piace? Ne sono felice, se lo goda, ci mancherebbe altro. Le vengo mica a dire che è un incompetente perché lei, invece, accetta il giudizio unanime di mezzo mondo? Non mi permetto, nella maniera più assoluta, perché non lo penso, non fa parte del mio modo di approcciare le cose e le persone e – soprattutto – non è argomento di mio interesse; 3) Non è altrettanto sinonimo di educazione – ma sostanzialmente esempio perfetto per un certo tipo di (non) pensiero che la rete sguinzaglia gratuitamente fin dal principio – dirmi una cosa come “un giornalista come te vuol cogliere l’occasione per diventare “famoso” andando controcorrente”. Mi chiedo come lei possa permettersi di dirmi una cosa del genere quando non mi conosce minimamente e, soprattutto, è esattamente l’opposto del mio criterio di ragionamento e comportamento anche attraverso un mezzo così sciagurato come la rete. Non ho e non avrò mai assolutamente niente di cui vantarmi per andare contro nessuno. Sto esprimendo semplicemente un mio pensiero costruttivo. Nient’altro; 4) Uscisse anche un’opera d’arte di nostro signore Gesucristo, la assimilerei per quello che è, cioè un’opera d’arte, poco importa – anzi nulla – se di nostro signore Gesucristo o di un lombrico sotterraneo. Se è bella dico che è bella, se è brutta dico che è brutta e, soprattutto, spiego perché. Con le premesse poste da lei, è inutile parlare di qualunque cosa. Peccato, avrei voluto. Detto questo, la saluto e le auguro di godersi tutto quello che ritiene bello a questo mondo, per il suo benessere personale.
Nic: L’elencazione abnorme e autocompiaciuta di artisti “giusti” che ha fatto in risposta ad un lettore offre una chiave per comprendere il sostrato del suo giudizio. Ma, mi perdoni, è un po’ infantile (e non c’è niente di male ad esserlo). Proprio il contrario di una consapevolezza culturale matura, forse necessaria per osare con un tale profluvio di aggettivi così tranchant (inutile, stupido, brutto, triste, irritante, vuoto, orrendo, infimo, “siete tutti musicalmente beoti”, ecc..). Come vede, anch’io non entro nel merito delle argomentazioni da lei svolte, ma questo è il rischio che si corre quando il tono di un giudizio è urlato. In questi casi, il piano di discussione richiede una difesa. E l’interlocutore può non accettare il ruolo.
Io: Caro “Nic”, rispondevo soltanto a una domanda senza alcun ulteriore riferimento nè pretesa di giustizia o autocompiacimento, atteggiamento che proprio io non ho affatto (se non si capisce nemmeno questo…mah…). Qui nessuno è beota nè monumentale. Che l’interlocutore accetti pure il ruolo, è in suo pieno e libero diritto. Ma quando vogliamo parlare del disco e solo del disco, sono a vostra disposizione. Grazie e buona giornata. Saluti.
Cosmo: Quanta durezza in questo articolo. The Endless River è semplicemente un album tributo che ho trovato assolutamente degno della band. Oltre 50 minuti di grande musica quasi completamente strumentale! Nel 2014! Wow! Che regalo! Non aggiunge nulla di nuovo a quella dimensione pinkfloydiana che sappiamo essere sempre stata orientata alla sperimentazione e alla ricerca? Non importa. Non più. Non oggi. Wright è morto nel 2008, e con lui l’ultima “versione della band” (quella del trio Gilmour-Wright-Mason). Non condivido nemmeno il giudizio sullo stile “ripetitivo” o “noioso” dei fraseggi di chitarra. Mi sorprende leggere che Lei è un fan dei Pink Floyd. Trova meno noiose le parti di chitarra nell’album Wish You Were Here per caso? Ad ogni modo, ognuno tragga le sue personali considerazioni sull’album dopo averlo ascoltato. Però, Lei, non esageri. Non serve.
Io: Buongiorno, “Cosmo”. Grazie per la lettura e il commento. Sì, è un giudizio duro ma la sua motivazione sta proprio nel fattore che Lei saggiamente puntualizza: semplicemente un album tributo. Ed è tale. Però, purtroppo, è stato inserito nella discografia ufficiale come ultimo album (ufficiale!) in assoluto. Quindi lo giudico come tale. Fosse rimasto un tributo pubblicato in maniera differente, lo avrei giudicato in quell’ottica (che è quella giusta). Per rispondere alle sue domande: sì, sono un fan dei Pink Floyd (per sua sorpresa) e sì, per me sono nettamente migliori (perché di gran lunga più creative) le parti di chitarra di quell’album (ma davvero ne stiamo parlando? Vogliamo anche mettere in discussione Shine on you crazy diamond, la stessa Wish you were here o Have a cigar? Di lei mi sorprende molto questo, invece – se posso dirlo, ma non importa). In ultimo – ma non ultimo – non si tratta di esagerare, si tratta solo di essere sinceri oltre qualunque cosa. Grazie ancora per l’intervento. Saluti.
Fabulous: Buonasera, commento con un po’ di ritardo, in quanto solo stasera ho avuto modo di ascoltare per intera l’ultima opera dei Pink Floyd. Non intendo per alcuna ragione riascoltarla. Perché? Perché é inutile, un disco inutile, nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già i Pink Floyd hanno detto in passato. Ma davvero qui a qualcuno é piaciuta questa roba? Io, tanto per dirvi quanto buone erano le mie intenzioni, me lo sono comprato su HDTracks in versione Deluxe 24bit/96Khz…non ero prevenuto. Ma santa pazienza…che sia un tributo o qualsiasi altra cosa…la musica innanzitutto é arte, una forma di comunicazione oltre le parole. Ma quando non si ha più nulla da dire non si può comunicare nulla. Anzi, a me sta roba mi ha fatto guardare ai vecchietti sopravvissuti, piegati sugli strumenti, con un po’ di tenerezza. Ma cosa combinate? Ma non era meglio stare fermi e magari passare il tempo a raccontare ai vostri nipoti o ai nipoti dei vostri amici le mille storie che sicuramente avrete da raccontare? Cosa vi é saltato in mente di mettere insieme tanta inutilità e di poter credere, con il nome che portate, di passarla liscia? Io penso che l’età centri molto, penso si tratti di inizio di demenza senile. Suvvia, come si fa a dire “ascoltatelo più volte, se non sentite nulla siete gretti, insensibili…”. No, una volta mi é bastata. E mi sono chiesto cosa volessero comunicare…Perché riproporre alla lontana le ormai inconfondibili sonorità? Le conosciamo da sempre…Mah, non so cosa ci sia di bello in una polpetta che scimmiotta Shine on You Crazy Diamond quando c’é già Shine on You Crazy Diamond. A me non cambia nulla, per me i Pink Floyd restano sempre gli dei dell’Olimpo. Però dico, ma porca troia…dai…a una certa età alle cose ci si dovrebbe arrivare subito…
Qui non ho risposto perché, forse, era già nato il mio attuale disinteresse a prendere parte a mischie nel fango. Ma la domanda ve la porrò sempre, finché campo: state ancora ascoltando The endless river con godimento, vero? Vero?
Un pensiero riguardo “Quando osai stroncare i Pink Floyd”