
Sono trascorsi dodici lunghissimi e intensi anni dall’ultimo tour a supporto di quello che, fino a diversi mesi fa, era l’ultimo album in studio dei Porcupine Tree, The incident del 2009, prima della pausa di gruppo necessaria a dividere momentaneamente le strade per lasciare spazio, ognuno a suo modo, alle nuove esperienze in vista all’orizzonte. Steven Wilson avrebbe tirato fuori un bellissimo album con l’amico Mikael Åkerfeldt degli Opeth (Storm corrosion), ci sarebbe stato e non ci sarebbe stato con Aviv Geffen per i Blackfield, avrebbe rimasterizzato mezza storia del progressive rock e dato ampiamente seguito a una carriera solista già abbozzata con Insurgentes nel 2008 (ma ancora prima c’erano stati gli esperimenti di Unreleased electronic music nel 2004 e, in realtà, gli stessi Porcupine Tree nascono proprio da sue primordiali manipolazioni in solitaria) e ingigantita tanto da qualche grande album (Hand. Cannot. Erase, sia per concetto che per forma, rasenta il capolavoro) quanto da esperimenti ostici o comunque più complessi (Grace for drowning, The raven that refused to sing) e sortite sophisti-pop a tratti anche decisamente notevoli (più The future bites che To the bone); Richard Barbieri avrebbe scavato più a fondo negli esperimenti di ricerca sonora sfornando anche alcune perle di genere quasi indefinito (almeno Planets + Persona e l’album in duo con Steve Hogarth dei Marillion, Not the weapon but the hand, sono imperdibili); Gavin Harrison sarebbe salito sulla scialuppa di Robert Fripp per stare dietro le pelli, assieme a Pat Mastelotto e Jeremy Stacey, dei nuovi King Crimson, senza mai tralasciare la funzione di turnista anche per il vecchio amico Claudio Baglioni (chi lo conosce sa bene dei suoi trascorsi in Italia per chiunque) e concedendosi, tra gli altri, una bella esperienza nei Pineapple Thief di Bruce Soord nonché, tra gli altri, un album in solitaria (Cheating the polygraph) in cui avrebbe rivisitato le strutture dei fidi porcospini in chiave jazzistica da big band; Colin Edwin si sarebbe dedicato anima e corpo ad escursioni soliste anche ai confini dell’elettronica, oltre a collaborazioni di varia natura in giro per il mondo.
Fatto sta che, a quanto pare, il laptop di Wilson non ha mai smesso di accumulare materiale papabile anche in cartelle dedicate a un possibile ritorno in scena con i compagni di una vita, nonostante il continuo ribadire l’insensatezza di una reunion nel momento in cui, a detta dello stesso Wilson, la musica migliore che potesse offrire era quella che stava facendo proprio nel momento in cui gli ponevano simili domande. E allora ecco che oggi, 2022, arriva il tanto atteso – e annunciatissimo – nuovo album Closure/Continuation. Frenesia per l’evento e amori ritrovati a parte, a cosa ci troviamo di fronte almeno ad un primo paio di ascolti?
Chiariamo subito una cosa ovvia ma comunque importante: strumentisticamente non c’è assolutamente nulla su cui provare a discutere neanche per scherzo (e ci mancherebbe altro). Harrison conferma di essere uno tra i più fenomenali e creativamente inossidabili batteristi presenti sulla superficie terrestre, Barbieri continua a tessere trame atmosferiche in pura simbiosi con universi paralleli e Wilson, oltre a mantenersi vocalmente ineccepibile, garantisce, rinnovandola, la sua inattaccabile perizia alla sei corde fornendo, oltretutto, un considerevole apporto alle frequenze basse vista la defezione dell’amico Colin Edwin che, a questo nuovo giro, ha preferito passare la mano (la differenza di tocco tra i due, di gran lunga a favore di Edwin, si sente eccome, ma Wilson fa tutto ciò che è in suo potere per non risultare mai inopportuno e, anzi, sostenere ammirevolmente una struttura complessiva comunque diversa e potenzialmente evoluta, finché possibile).

Però c’è un piccolissimo problema. Più che di un problema, in realtà, si tratta di una semplice riflessione personale che però, per forza di cose, va a toccare un tasto apparentemente inattaccabile tra gli svariati pregi di una delle più grandi band in circolazione: la composizione. Se già The incident – per quanto splendido nel suo andirivieni cosmico tra concept album con tanto di leitmotiv e grande ispirazione melodica – soffriva di un po’ di messa a tavolino in diversi frangenti pur di far quadrare il tutto in un cerchio capace di chiudersi senza troppi patemi d’animo (a volerla dire tutta, anche Fear of a blank planet, esclusi molti momenti di pura estasi sensoriale, si dilungava volentieri sulla scia di qualche contorsione assemblativa, a volte a ragione ma in altri casi forse un po’ a sproposito), la più grande difficoltà del momento – ben compresa e ribadita tranquillamente e a più riprese da Wilson e soci – consisteva nell’affrontare un percorso che potesse provare ad essere, se non proprio diverso, almeno laterale o trasversale rispetto alle varie (tante) anime assimilate, vissute e donate al mondo sonoro nel corso di più di trent’anni di carriera. Con queste intenzioni, dunque, la decisione di costruire un nuovo album a nome Porcupine Tree proviene dalla consapevolezza di avere a disposizione materiale percepito come rigenerante e da sviluppare secondo una prassi meno wilsoniana e più di vero gruppo, affinché il riscontro determinante potesse essere quello relativo a un prodotto in grado di valere sia come chiusura definitiva di un cerchio che come eventuale nuovo inizio produttivo. Il risultato, però, dona respiro a un lavoro senza dubbio pregevole e imperdibile per i più addentrati nelle faccende porcospiniche, ma non superiore – né tantomeno inferiore, chiariamolo – a una qualsiasi altra produzione della fase porcospiniana più recente (almeno da In absentia in poi).
Si accennava – esagerando ma giusto per intendersi – a una parvenza di messa a tavolino che, nel caso di Closure/Continuation, rischia, forse, di dilungare più del dovuto una successione di tasselli pregevoli ma visibilmente costruiti secondo metriche ben consolidate e sperimentate in altre situazioni precedenti, dunque non tendenti a nulla di particolarmente diverso o trasversale se si considera il recap steso qui in principio. C’è tanto, forse troppo Wilson in queste nuove scritture. Il che è senza dubbio un gran pregio laddove è proprio la sua ad essere sempre stata la sostanza portante dei Porcupine Tree, sia a livello compositivo che nella minuziosissima maestria in sede di arrangiamento. Ma può diventare anche un difetto nel momento in cui si dichiara che proprio la fase creativa, questa volta, sarebbe stata davvero collettiva (eccezion fatta per Harrison che, se lasciato libero di sperimentare tra tempi dispari e poliritmie, riesce sempre ad incantare anche i più scettici).
Certo, prendendo brani come Harridan, Herd culling e Of the new day non c’è assolutamente scampo per pure estasi viscerali (quanto al primo, un po’ meno per il secondo) e di gusto melodico sopraffino (per quanto in controtendenza con metriche ballad canoniche, per il terzo). Ma prendendo in considerazione frangenti come Rats return, ad esempio, balza alle orecchie l’incedere fulminante dell’hard prog di esperienze pregresse come – tra tutte, forse – Futile nell’efficienza strutturale tanto cara agli Opeth più recenti, di cui proprio Wilson è stato produttore e ispiratore ispirato. Magnifiche sono le lunghe semi-ballad con evoluzione naturalmente prog Dignity e Chimera’s wreck, ma in esse molto c’è di Stupid dream, dei solisti wilsoniani più legati alla fascinazione seventies e al savoir-faire di matrice Blackfield, pur compiendo passi importanti non tanto in avanti quanto di lato nella conformazione di sontuose atmosfere emozionali e progressioni strutturali in crescendo marziale con influenze Opeth, anche qui, ma attingendo alla rispettiva fascinazione più dark di ultimissimo periodo. In Walk the plank, poi, sembra evidente una cura del suono più prossima alle strutture elettropop di alcune sezioni di The future bites con propensione a certi esperimenti assemblativi tra Stupid dream e Lightbulb sun, ma la sensazione di avere nelle orecchie anche alcune forzature di scrittura pur di arrivare al punto, esplorare strade parallele e tornare al discorso di base è sinceramente presente e rischia di far passare più o meno in secondo piano un lavoro complessivo comunque di grande valore (e non potrebbe essere altrimenti, con nomi di questo calibro).
Sono solo impressioni di chi segue queste personalità artistiche con amore da tempo immemore, sia ben chiaro. Vedremo cosa riserverà il futuro più prossimo. Al momento, Closure/Continuation, malgrado i pur ininfluenti difetti menzionati, si afferma come un buon album dei Porcupine Tree in quanto tali, necessario e ampiamente godibile per chi già ne conosce la sterminata sostanza e ne avvertiva seriamente la mancanza (stiamo sempre parlando di alcuni tra i migliori musicisti ad oggi in circolazione), ma non consigliabile a chi vuole approcciarsi a questo specifico mondo per una prima volta.
Un pensiero riguardo “Porcupine Tree – Closure/Continuation (Music for Nations, 2022)”