Litfiba – 12/5/87 (aprite i vostri occhi) (I.R.A. Records, 1987)

Dice “se avessi a disposizione una macchina del tempo, quale concerto della storia non ti perderesti per nessuna ragione al mondo”? Ma quale Woodstock: sera del 12 maggio 1987 (magari anche primo pomeriggio per inchiodarmi ai cancelli e beccare la prima fila sparandomi dentro come The Flash all’apertura; facciamo pure tarda mattinata, tanto per essere un po’ più sicuri), Firenze, Tenax, via Pratese 46 (non sono sicurissimo sulla correttezza dell’indirizzo; facciamo che, nel caso, chiedo a qualcuno una volta arrivato lì).

E già, il Tenax. Ora discoteca per sballati senza gusto alcuno (almeno secondo il mio modesto punto di vista nei confronti dell’esistenza terrena ma sai com’è, le mode cambiano e ci si adatta sempre un po’ alla moneta corrente), all’epoca locale di punta e di assoluto riferimento per tutta la scena musicale del momento, vale a dire quella magnifica e irripetibile ondata post punk / new wave che aveva letteralmente sommerso la città di Firenze e, per diretto riflesso, l’Italia intera (sai com’è pure qua: in Italia siamo sempre arrivati tardi ad importare le cose belle e, soprattutto, utili; ci voleva un po’ ad analizzare il mercato per vedere se una cosa era conveniente oppure no, e comunque si investiva ad alti livelli di spesa solo dopo che altri avevano rischiato la pelle nei vari tentativi precedenti).

Dice “sì, ma perché proprio quella data e quell’indirizzo lì”? Perché quella sera, al Tenax, in programma c’era l’ultima data live dei Litfiba che chiudevano i battenti sull’epocale tour di 17 Re, forse – assieme a Siberia dei Diaframma e poco altro – il vero grande capolavoro, nonché manifesto, dell’intera stagione.

I Litfiba, certo. Quelli che, qualche anno prima, erano stati in grado di distinguersi da tutto il pur eccellente resto della ciurma per maggiore inventiva creativa (e non solo), prendendo quel post-punk e quella new wave oscura di stampo britannico per mescolarli a forti influenze mediterranee con sguardi ad oriente che donavano al tutto un sentore veramente innovativo e sensorialmente travolgente. Che meraviglia quei suoni, quelle ritmiche marziali e telluriche tra le pelli di un De Palma in stato di grazia e un Maroccolo in pura estasi da assoluta perfezione. E quel Renzulli e quell’Aiazzi in formato dono divino per fare del tutto qualcosa di sostanzialmente oltre tra melodia e furore sonico, tra dolcezza metodica e frastuono interiore. E quei testi, così centrati nella migliore trattazione possibile degli argomenti che un giovanissimo Pelù aveva deciso di sviscerare senza mezzi termini, con fermezza e spessore decisionale ma anche con grande poesia e, al contempo, ragion d’essere, il mix perfetto affinché la vita reale ti rapisse cuore e stomaco per farne un unico banco di prova concettuale ed esistenziale per quella che fu la “trilogia del potere” (completata in studio solo l’anno successivo con 3,ma le cui viscere erano state già coltivate nei primi Ep pre-Desaparecido).

Dunque il Tenax, Firenze, 12 maggio 1987. Ultima tappa di un intensissimo tour iniziato in Australia e arrivato proprio lì a dare una veste definitiva all’essenza più intima e sincera di un intero periodo. Quasi niente, dopo, sarà più come prima. Anche Fiumani e i Diaframma prenderanno strade diverse, seppur non così radicalmente divergenti come quelle che vedranno il duo Pelù/Renzulli prendere quasi le sembianze di una sorta di Battisti/Mogol del rock puro nostrano. Motivo per cui quella serata lì, nello specifico, sarebbe letteralmente da incastonare in una sorta di puntata speciale di Black Mirror dove si rimane incastrati in un loop temporale in eterno, lungo quanto la durata esatta dell’intera performance, dallo spegnersi delle luci fino all’ultimo brandello di carne disceso dalla scaletta di quel sacro palco.

Quel palco, sì. Lo avevano calcato i Tears For Fears, i Tuxedomoon, gli Human League, i Bauhaus, i New Order, i Sister of Mercy e altre santità varie che venivano in terra italica a battezzare un’epoca derivativa con la loro supervisione, affinché tutto fosse come doveva essere per trasmettere correttamente quel senso del vivere. Su quel palco Pelù e soci diedero sfogo a tutto ciò che avevano immagazzinato nel corso della loro esistenza collettiva. Tutte le esperienze esistenziali e ideologiche presero una forma definitiva per rimanere, una volta per tutte, nell’olimpo delle performance live anche decontestualizzabili dal preciso momento.

Forse sapevano già di voler provare a cambiare a rischio di dissapori interni e tensioni decisionali? Forse era anche un certo timore del futuro a donare ancora più forza d’animo all’idea di rendere indimenticabile quella serata non solo perché ci si ritrovava tutti a casa, da dove tutto era partito? Chi può saperlo se non loro. Da quest’altra parte della scena, qualunque fosse la ragione aggiuntiva (oltre allo smisurato talento indiscutibilmente in forza alla band fin dai suoi primissimi respiri) si respirava aria di epicità e di Storia fin dall’annuncio di quella data, non a caso immortalata in qualsiasi maniera possibile tra supporti audio e video.

E il resoconto fu forse, anzi indubbiamente, uno degli album live più puri e genuini dell’intera storia del rock non solo italiano. 12/5/87 (aprite i vostri occhi), secondo disco dal vivo dei Litfiba se si conta anche quello strano Live in Berlin del 1984,è ancora oggi, infatti, la quintessenza degli album dal vivo. Non una selezione di brani ben riusciti nel corso di un tour intero (Bruce Springsteen, tanto per dirne una, nel mitico cofanettone quintuplo dell’86, stese proprio una sorta di documentario sonoro pescando da ben dieci anni di vita sui palchi) ma la testimonianza perfetta di una sola serata da tramandare consapevolmente ai posteri. Niente ritocchi in studio qua e là, solo la cristallizzazione nel tempo di una fotografia non per forza nitida (ed è anche questo uno dei suoi mille punti di forza) ma comunque ben scattata di un momento fondamentale per la storia del rock nostrano. Peccato, forse, solo per l’ovvia rinuncia ad immortalare su disco l’intera scaletta per ragioni di spazio e, immagino, anche di costi per la mitica I.R.A. Records di Alberto Pirelli (stampare di nuovo un doppio Lp, dopo le fatiche logistiche messe in atto per 17 Re – per quanto ben ripagate, sia dal momento che dal tempo – doveva di certo rappresentare uno sforzo non da poco, comunque ovviato da un vinile a solchi più stretti – c’era, infatti, da alzare un po’ il volume per ascoltare bene – e dalla pubblicazione della serata in formato Vhs, decisamente meglio dell’edizione in Cd con un brano in più, in termini di documento; certo, almeno oggi una bella riedizione in doppio compact disc con Dvd aggiuntivo non è che ci starebbe così male, eh, la butto lì).

Ad ogni modo, anche solo l’edizione in vinile di 12/5/87 (aprite i vostri occhi), ristampato poi dalla CGD una volta acquisito il catalogo col passaggio della band all’interno del suo roster, rende perfettamente il senso più intrinseco di quei momenti. Dall’apertura dark-psichedelica di Come un dio, affidata al magnetismo delle quattro corde di Maroccolo e alle sfumature eteree della chitarra di Renzulli (così diversa dalla sua successiva sorella temporale), alle devastazioni emotive e ideologiche di Resta, La preda e Cane – così, una dietro l’altra – passando per la riflessività politica ed emozionale di Ferito e Apapaia fino a perdersi letteralmente nel febbricitante delirio dei 17 minuti e 17 secondi (ancora quel 17…prima o poi ci farete assaggiare qualche demo di quell’unica nobile esclusa?) del dittico Vendette / Luna, tutto è assolutamente perfetto, decisivo, unico, sovradimensionale, sostanzialmente la mannaia ideale per i nostalgici di epoche mai vissute per ovvie ragioni anagrafiche.

Come dici? Ah, certo, una macchina del tempo non l’hanno ancora inventata. Però, sai, resta sempre viva quella cosa chiamata memoria dell’anima che a qualcosa dovrà pur servire, fosse anche solo a livelli autobiografici. I luoghi dove respirare almeno un po’ di quell’aria sono ancora lì, basta andarci una volta ogni tanto e scambiare quattro chiacchiere con le persone che c’erano e che provano ancora oggi a mantenere accesa quella fiamma.

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