
Un po’ come Michele Monina, nel 2014, invocava il ritorno degli Scisma – nello specifico implorava Sara Mazo di riprendere in mano un microfono – così anch’io (per carità, con molta meno enfasi ma, credo, un pizzico di cognizione di lucida causa in più) invoco il mio desiderio di ritorno: quello degli Slow Motion Genocide.
E chi sò? Giusta osservazione. Trattasi di una delle poche band irpine (la mia terra d’origine) che davvero ha cercato di lasciare seriamente un segno a livello sonoro in termini di ricezione internazionale del dato musicale, ben oltre le solite cover band e ben oltre i vari progetti un bel po’ campati per aria (tra cui ci metto pure qualcuno dei miei, per carità) che per un paio di decenni hanno invaso i padiglioni auricolari di chi si andava a trangugiare qualche birra in un locale (trovandoci, però, anche delle proposte eccezionali, vedi alla voce Guernica). Salvo poi, come per moltissimi altri casi simili (tra cui pure i Guernica), mollare le redini della situazione per cause di forza maggiore, vuoi per sottostare alla distanza che la vita ha imposto ai singoli componenti (ognuno, ovviamente, con un presente personale da gestire e un futuro da provare a ipotecare), vuoi in seguito a specifiche scelte che, giustamente, ogni singolo membro ha convintamente meditato per la propria evoluzione individuale (il cantante dei Guernica Tony D’Alessio, per la cronaca, adesso sta col Banco del Mutuo Soccorso e arrivò alla finale di X Factor nel 2013con gli Ape Escape).
Fatto sta che Federico Preziosi, Pasquale Tomasetta e Lello Pisacreta (che saluto e abbraccio sempre) erano un trio strumentale spaventoso, nel senso di straricco di idee e spunti provenienti da una cultura musicale sconfinata e mirata a portare in avanti, finché e fin dove possibile, un discorso post-rock che ha preso ampio spazio, anni e anni fa, nei nostri comuni ascolti, cambiando di molto l’idea stessa che tutti ci eravamo fatti in merito alla composizione di brani musicali. Già, perché principalmente Federico (ma mi pare di ricordare che un po’ valga anche per Pasquale e Lello) era una delle frequentazioni del fatidico negozio di dischi che non era solo un negozio di dischi, all’interno del quale imperava il commesso che non era solo un commesso (vedi lo scritto su Kid A Mnesia ma anche altri in queste stanze). Anche con lui passavo pomeriggi a parlare sempre e solo di musica, di dischi, di progetti, di intenzioni più o meno concrete, provando continuamente l’incommensurabile piacere del far vivere un sogno generato da un’idea, poco importa se realistico o ben lontano dall’essere fattibile. Solo che, mentre io mi appitonavo su cose improponibili con parvenze di talento discutibile (per quanto comunque dense di riferimenti e idee, seppur stralunate e poco chiare), lui poneva in essere una sostanza precisa, dettagliata, stratificata e molto ben delineata su un concetto di divenire. Per questo è un peccato mortale che il progetto Slow Motion Genocide, nato dalle ceneri dei precedenti, ma ugualmente intensi, Fade Out e Deny, si sia fermato dopo un inizio così luminoso e propositivo per un panorama sonico nostrano che rischia davvero di vedere il fondo non decidendosi, una buona volta, di scendere seriamente in quelle cantine.
Per questo chiedo a te, buon Federico: tu, Lello e Pasquale – specialmente alla luce delle moderne tecnologie di interconnessione, per cui uno può pure stare su Urano mentre l’altro si adagia su Saturno; e sì, so di La Lacrima della Canzonetta, ma quello è un altro paio di maniche – che ne dite di riprendere in mano il discorso? Di mio, provo a riesumare questa bella intervista che mi regalasti per il quotidiano online su cui all’epoca scrivevo, WakeUpNews. Era l’agosto 2011 ed era appena uscito l’esordio omonimo su New Model Label. Ci sarebbe stato anche un altro splendido ep, Unculture, attualmente ancora privo dei seguiti dichiarati. A buon rendere.

Perché “Slow Motion Genocide”?
Volevamo qualcosa di forte che fosse anche un nome nuovo, non utilizzato da altre band. Qualche amico, leggendo il nome, ha addirittura creduto che si trattasse di una band metal: magari qualche piccola contaminazione c’è, ma proprio “brutal” no. A dir la verità, prima di scegliere questo nome ci abbiamo pensato molto, è stata una riflessione abbastanza lunga. L’idea definitiva è venuta a me: ero a Roma ad un piccolo festival alla Casa del Cinema e stavo vedendo il documentario Darfur now [Ted Brown, 2007, ndr]. Ad un certo punto del film si diceva che quello che stava succedendo in Darfur era un “genocidio al rallentatore”. Da lì, dunque, “Slow Motion Genocide”. È stata una scelta abbastanza azzeccata: era di impatto ed era anche una novità visto che non volevamo si trattasse di qualcosa di già sentito.
Come nasce il vostro progetto?
Il progetto è nato quasi per scherzo, principalmente quando io e Pasquale [Tomasetta, batteria, ndr] stavamo suonando nei Deny. Circa tre anni fa Deny era un progetto molto incentrato sulle chitarre e, di conseguenza, la sezione ritmica era quasi solo d’accompagnamento. Invece io e Pasquale avevamo una passione per gruppi fondamentalmente ritmici, magari anche un po’ più crossover, non perché non ci piacessero i Deny, semplicemente perché volevamo suonare anche delle cose che rispecchiassero meglio la nostra attitudine al ritmo. Pasquale soprattutto ci teneva a sviluppare proprio dei ritmi particolari che lui stesso aveva scritto. Si tratta di un batterista che è sempre stato molto presente ma anche molto rispettoso della melodia. Io sono un bassista melodico ma molto potente. Lello [Pisacreta, chitarra, ndr] suonava con me in un altro gruppo di cui facevo parte, i Fade Out, perciò non ho esitato a chiamarlo per ricoprire il ruolo di chitarrista. Tuttora i Deny hanno un solo membro fisso e i Fade Out non sono più in attività, quindi Slow Motion Genocide, in questo momento, nonostante le varie difficoltà, è il progetto che si è mostrato più solido. Anche scegliere di essere un gruppo puramente strumentale ha significato intraprendere una direzione che dia luce proprio alla musica stessa, una strada che ci lasci concepire i pezzi che scriviamo principalmente in termini di musica, senza una struttura che privilegi un singolo strumento per risultare più appetibile. L’intenzione è quella di sperimentare, anzi, ricercare dei ritmi, delle sonorità nuove.
Questo tipo, appunto, di ricerca, dove pensi possa portare? È comunque un genere non semplicissimo.
Si, la semplicità non è tra le nostre premesse. Noi cerchiamo magari l’immediatezza strumentale ma non proprio la semplicità di tipo strutturale. All’inizio abbiamo anche faticato a staccarci da una certa struttura pop fatta di riff, strofa, ritornello, eccetera. Abbiamo cercato di fare un lavoro preliminare che ci permettesse di staccarci dai nostri gruppi precedenti, impostati proprio su quei concetti di strutture abbastanza riconoscibili. Dunque la nostra direzione è molto intuitiva. Non so dire, effettivamente, dove va il gruppo, qual è la direzione, perché non c’è una direzione fissa. Nell’epoca in cui viviamo oggi, tanta musica è stata fatta e, quindi, dire “sto andando in questa o quella direzione” non credo sia molto indicativo. Dare oggi un’etichetta a qualcosa che si propone di essere originale non è semplice. Abbiamo questa presunzione. Posso dirti, forse, che noi, già dall’uscita dell’ep, un mese fa, abbiamo intrapreso un cammino che fa della variazione il suo credo: abbiamo sperimentato col dub, con accenni di post metal, con delle influenze di rock indie italiano. La cosa che ci interessa è far convivere tutte queste cose. Ognuno di noi ascolta generi differenti: Pasquale è appassionato di jazz, io sono più per l’alternative, Lello è più sul rock italiano. Ci sono, quindi, tante influenze che vengono amalgamate. Non posso ancora stabilire se ci siamo riusciti, ma la volontà del gruppo è questa.
Si tratta comunque di un’avventura iniziata da poco e, ad ogni modo, direi che le basi sono state gettate e anche bene.
Si, però in realtà non è nato da poco. Il gruppo è nato effettivamente tre anni fa. Il fatto è che ha avuto molti problemi sia di salute che di disponibilità a causa di studio o lavoro. Quindi il primo anno, dopo una demo registrata velocemente ma che ha avuto un buon feedback, ci siamo dovuti fermare. C’è stato un periodo di incubazione dove abbiamo rielaborato quello che avevamo appena prodotto, cioè il frutto di un lavoro di pochi mesi. Questo lavoro di incubazione è stato molto lento ma molto importante perché ci ha permesso di maturare soprattutto dal vivo, assimilando meglio le idee iniziali e, nel frattempo, sperimentando con cose diverse. Dall’anno scorso, invece, tutto ha cominciato ad essere molto più scorrevole: abbiamo fatto molte più serate, soprattutto a Roma, e siamo riusciti così ad entrare in altri giri come, ad esempio, Mini Radio Web o l’etichetta digitale che ha pubblicato il nostro ep.
Come nascono i pezzi? Da cosa partite, quali sono le fondamenta delle vostre composizioni?
Sono fondamenta principalmente ritmiche ma non è detto: alcuni pezzi, ad esempio, nascono da melodie di chitarra oltre che da riff di basso e pattern di batteria. Mi piace pensare al gruppo come composto da tre elementi differenti ma ognuno dotato di particolari qualità che siano in grado di legarsi tra di loro. Sono tutti elementi messi insieme a creare lo spunto per la nascita dei pezzi. Ultimamente abbiamo anche sperimentato un’altra forma compositiva che è quella di scrivere delle melodie e riarrangiarle. Per esempio, Mindenki, un brano presente solo su YouTube, la cui melodia è stata composta quando io ero in Erasmus in Ungheria, ha una genesi più strana proprio perché scritto e arrangiato sulle basi di vecchie melodie ungheresi contadine. Il brano, una volta sviluppato, è stato filtrato dagli altri membri della band che hanno costruito nuovi arrangiamenti sulla melodia. Il risultato, incredibilmente, almeno a me ricorda molto i Sonic Youth di Daydream nation con una verve melodica più spiccata. Si tratta di un metodo che di certo si svilupperà meglio su brani futuri. È qualcosa di originale, soprattutto perché, partendo da un altro presupposto, ti permette di far maturare altre idee, altre sonorità, altri ritmi, altre melodie.
Uscendo un attimo fuori dal territorio tuo personale, hai, come gli altri membri della band, già molta esperienza nell’ambito artistico locale avellinese. Ricordo un bel fermento di gruppi emergenti fatti di ragazzi appassionati. In che situazione ci si trova adesso? Che aria tira, secondo te, in Irpinia?
Ci sono alcune realtà estremamente positive. A me piace molto quello che sta uscendo fuori già da qualche anno dall’etichetta A Quite Bump, forse la realtà che meglio rappresenta il territorio irpino. Raccoglie delle band come Jambassa, Black Era (che io, Lello e Pasquale amiamo molto) e Mou, per me una grandissima band avellinese. Adesso non ci sono più, però sono stati seminali per eredi non tanto musicali quanto in termini di ricerca sonora, tra i quali proprio i Jambassa, uno dei pochi prodotti nostri realmente esportabili, direi. Altre realtà a livello cittadino sono state e sono proprio i Deny: dopo tutte le loro mutazioni, attualmente hanno trovato una forma musicale secondo me molto criptica. Un altro progetto che mi piace tantissimo è Pure Songs di Mariano [Festa ndr], che anche ha fatto parte dei Deny: scrive delle belle canzoni di folk acustico senza niente da invidiare a tanti cantautori che anche all’estero sono più quotati. Poi c’è il progetto Terri.Bile: Adriano [Musto, ndr] è l’unico vero punk rimasto ad Avellino, un tesoro provinciale da preservare. Il problema è semplice: qui le risorse sono minori e, dopo tanti anni passati a suonare, magari, certe avventure si affrontano anche con meno entusiasmo. Quello che davvero mi preoccupa è che non vedo le grandi band che possono lasciare un segno profondo. I Guernica della prima ora, ad esempio, mi piacevano molto. Quelli di ora un po’ meno perché credo abbiano perso energia pur avendo comunque scelto di fare altre cose. I Funny Dunny e i Tom Bosley, poi, sono gruppi molto interessanti. Più che altro, oggi, anche dopo esperienze importanti, come MicRec, durante le quali hanno visto la luce molti gruppi divertenti, a parte alcune eccezioni, non vedo, soprattutto nei più giovani, lo stesso entusiasmo che avevamo noi. Noi stampavamo locandine e le appendevamo abusivamente sui muri, cercavamo di coinvolgere molta più gente. Anche nella scelta delle cover da suonare, cercavamo di selezionare brani (oltre che molto sentiti dal gruppo) che poche persone conoscevano, in modo da essere poi avvicinati da gente che ci chiedeva “ma di chi è questo pezzo?” o cose simili.

C’era più interesse nel proporre cose nuove ma anche nell’ascoltare cose nuove.
Si. C’era interesse a far conoscere quello che tu suonavi. E, in questo, si era davvero alternativi perché si era davvero diversi, la si pensava in maniera diversa, si ascoltava musica diversa dal contesto generale. E c’era interesse nel farla conoscere. Oggi mi sembra tutto un po’ una moda: giovani band di adesso, su un palco, pensano più alla presenza scenica, ma di rock non ce n’è poi tanto. Non sento la cattiveria giusta. Non sento l’ingenuità propria della purezza di sentimenti. La vedo un po’ artefatta. Chiariamoci, bei gruppi di ragazzi ci sono, hanno delle belle idee però non riescono, forse, a fartele sentire nel vero senso del termine. Manca quella novità che possa farmi capire i desideri, le aspirazioni, i sogni di chi la esprime. È anche vero che anche a livello nazionale la cosa è un po’ stantia.
Che progetti avete per il futuro in sede live?
Per un eventuale tour non abbiamo ancora pianificato nulla perché l’ep è uscito da poco e non c’è molto tempo materiale, specie in periodo estivo, per preparare una serie di concerti. Ci stiamo preparando, però, per un festival: suoneremo a Monteverde per due giorni con uno sfondo di videoproiezioni ad opera di Vj Klein. Questa sarà un’altra sfida interessante perché vedremo come la nostra musica riuscirà a convivere con mondi lontani, un’altra realtà completamente diversa da quella pseudourbana avellinese.
Di cosa si tratta di preciso?
Si tratta dell’Home Festival. Si terrà nei giorni 1 e 2 ottobre nei comuni di Bisaccia, Rocca San Felice, Morra De Sanctis, Monteverde e Aquilonia. Sono stati selezionati alcuni artisti irpini provenienti da varie arti, non solo musica, come ad esempio il teatro, la danza, il cinema. Sarà tutto incentrato sul tema del territorio irpino. Lo scopo è quello di vedere se emergono artisti giovani interessanti in ambito locale. Le varie performance, quindi, verranno preparate in ottica dell’espressione del territorio e messe in scena in vari punti scelti stesso dagli artisti. Credo sia una cosa molto importante perché regala spazio anche ad artisti che fanno fatica a trovarne in contesti più pubblicizzati. Qui, ad esempio, l’iniziativa è stata monitorata da Franco Arminio, uno dei maggiori poeti irpini viventi, un nome importante anche a livello nazionale. La preparazione è stata molto interessante perché abbiamo potuto seguire un vero e proprio workshop con, tra gli altri, Lucio Argano, docente dell’università Roma Tre che ci ha insegnato come mettere in piedi uno spettacolo tra mille difficoltà. Tutti, insomma, hanno un po’ cercato un’identità nei nostri progetti in modo da inserirli nel contesto e presentarli al pubblico con la forza delle scenografie naturali del luogo.