Radiohead – Kid A Mnesia (XL Recordings, 2021)

Inizio del mese di ottobre, anno 2000. Nel negozio di dischi che non era solo un negozio di dischi arrivarono diverse decine di copie di Kid A, il nuovo album dei Radiohead. Il commesso che non era solo un commesso aveva fatto pressione sui titolari che – si direbbe anche giustamente, sotto certi aspetti – avevano espresso la proprie titubanze in merito a un’ordinazione così corposa dal momento in cui, malgrado le ferventi attese dell’ultimo paio di anni, voci di qua e altre dicerie di là fornivano, in modi diversi ma dal senso più o meno univoco, una sentenza, secondo loro, sufficientemente preoccupante: la stessa band che aveva tirato fuori un capolavoro epocale come Ok computer – pilastro portante dell’evoluzione del concetto stesso di rock odierno e, di fatto, spartiacque per quanto riguarda il modo di concepire lo studio di registrazione come membro aggiunto del collettivo – era sostanzialmente impazzita, aveva lasciato da parte gran parte delle chitarre che ne costituivano le fondamenta e si era messa a sperimentare con una quantità sproporzionata di apparecchiature elettroniche. Si aggiunga a questa preoccupazione di base l’aggravante del fatto che, di per sé, i titolari non nutrivano una particolare simpatia per la predisposizione elettronica più estrema, fatta eccezione per giusto un paio di alternative. Ma il commesso che non era solo un commesso, evidentemente, sapeva qualcosa che noi tutti, devoti a quelle mura da tempo immemore, non sapevamo o ancora non vedevamo. E quindi, senza proferir parola, costui prese un paio di copie di Kid A e le mise, come sempre, in amorevole esposizione sia sugli scaffali interni che in vetrina, riponendo tutte le altre negli appositi cassetti da rifornimento. Una copia, però, la acquistò proprio lui assieme a una dozzina di TDK D46. L’indomani, chiunque avesse messo piede nel negozio di dischi che non era solo un negozio di dischi si sarebbe ritrovato in tasca – per alcuni anche a propria insaputa – una registrazione di quell’album. L’indomani ancora, in definitiva, ci saremmo ritrovati tutti lì, come richiamati da un iperuranico pifferaio magico, a sventolare una banconota da cinquantamila lire con occhi spiritati e bava alla bocca.

Cosa era successo? Che ragion d’essere poteva avere una simile e gigantesca smania di possedimento che, potenzialmente, tra quelle mura non si vedeva dai tempi di un nuovo album dei Pink Floyd? Era successo che un po’ tutti noi, coccolati e cresciuti a botta di intuizioni alternative in merito a ogni possibile genere musicale distinguibile da orecchio umano, avevamo intuito che qualcosa stava per cambiare in un certo modo di intendere le produzioni discografiche nell’overground. Perché Thom Yorke e soci, da noi inizialmente apprezzati per la spiccata capacità di creare – facendo anche a meno di buona parte dei soliti riferimenti d’oltremanica – canzoni di una bellezza disarmante, e poi ammirati per la sconvolgente predisposizione alla manipolazione sonora di un’identità che credevamo definita dopo The bends ma che invece non lo era affatto, avevano fatto quasi cartastraccia del pentagramma e introdotto nel proprio DNA qualcosa che magari già c’era ma non trovava spazio sufficiente per esprimere la propria complessa consistenza esistenziale.

Kid A fu letteralmente una mazzata in fronte, ma nel senso più sano e costruttivo del termine. Fu un frastuono emotivo, un’epifania di redenzione interpersonale che innalzava, sdoganandolo definitivamente, un concetto di libertà espressiva a cui anche una major (la EMI, mica bruscolini) aveva dovuto soccombere pur di avere tra le mani un prodotto che risultava essere sia vendibile (visto il nome in questione) che futuribile in funzione di analisi, studi e ipotesi anche ideologiche e (certo) politiche sul senso più intimo dello stare al mondo in quel preciso momento storico. Una mazzata in fronte amplificata ulteriormente dal fatto che anche quel disco uscì nel pieno di un triennio che vide arrivare tra quelle mura anche titoli come The fragile dei Nine Inch Nails (che trasformava la depressione rabbiosa in suoni e rumori irripetibili, donando anche un barlume di speranza a ciò che in precedenza era stato negato e facendo dell’arrangiamento un fattore artistico inestimabile), Lateralus dei Tool (capolavoro di un’immensità ancora oggi stratosferica, perfettamente in grado di tradurre in musica un concetto di evoluzione umana che trascende dal corpo e si fa universo), Binaural dei Pearl Jam (che, morto il grunge, cercava – e trovava – nuove vie maestre tra le viscere di un rock di stampo classico) e Origin of symmetry dei Muse (che rivisitava il concetto di power trio ripartendo dalle sue stesse fondamenta).

Kid A fu una mazzata in fronte perché ci tradusse in dato udibile quanto di più diretto stessimo già vivendo ma di cui ancora non ci eravamo accorti, denso com’era di quella ricerca strutturale che fu quasi causa di ricovero mentale per i suoi progenitori ma che, a conti fatti, equivaleva all’unica possibile spiegazione istantanea del perché ci sentissimo abbandonati senza sapere esattamente come e da chi, del perché cominciassimo a percepire l’amaro retrogusto di rapporti personali che, di lì a pochi anni, si sarebbero allentati un po’ per cause di forza maggiore e un po’ per indecifrabile e, spesso, inconsapevole negligenza individuale, nella illusoria ricerca di nuove strade da percorrere e nuove lingue da parlare, per un chissà quale futuro di chissà quale forma di realizzazione. Tutto si stava dissolvendo nell’infinita riproduzione tecnica di se stesso, tanto la meccanicità del desiderio di mantenere vivi dei contatti che si conoscevano come fraterni quanto nella dissoluzione di identità che, gradualmente e in maniera momentaneamente indolore, cominciavano a diventare dato, informazione, materia priva di contenuto. Ma l’illusione manteneva ferma l’idea che tutto fosse sempre e comunque al proprio posto, che saremmo soltanto confluiti (in realtà dissolti) in un nuovo sé, in un limbo indistinto che ci avrebbe donato nuova luce finendo, invece, per rinchiuderci in un bunker senza uscita, tutt’altro che ottimistico e, anzi, generatore continuo di ansie, paure, indecisioni. L’illusione diceva che quella fine (il passaggio dall’analogico al digitale, dalle strette di mano alle richieste di amicizia con un clic, dalle parole ai segni su uno schermo; ce ne rendiamo conto almeno oggi, dopo quanto accaduto ad ognuno di noi in qualsiasi angolo di mondo?) sarebbe stata un nuovo inizio. Un bunker dal quale, stretti come sardine e consapevoli di poterci anche sbagliare, avremmo sognato di fuggire, un paio di decenni dopo, proprio come fa quell’omino di pixel che scopre un mondo inesplorato sotto la superficie del suo oceano interiore, ritrova casa, vi si adagia e stacca il tubo dell’ossigeno che lo legava all’esterno (o all’alto?).

Non finì lì, infatti, perché pochi mesi dopo, nel giugno 2001, arrivò Amnesiac e a tutti noi fu chiaro un concetto ben preciso: Kid A, o quello che era in origine, poteva essere un doppio album. Le session di registrazione, infatti, erano le stesse, solo che Yorke e soci avevano tenuto fuori dal gemello precedente proprio quei pezzi che – siamo negli anni dell’avvento di internet e del file sharing, non dimentichiamolo – erano già noti ai fan più oltranzisti per via di bootleg e registrazioni varie da questo o quell’altro concerto durante il quale i nostri amati cominciavano a testare l’impatto sul pubblico di un’attitudine così diversa da quella che chiunque aveva imparato a conoscere. Ci mordemmo i gomiti perché, qualora le cose fossero andate diversamente (qualora, cioè, avessimo avuto tra le mani quel benedetto doppio album, ricostruito da ognuno di noi a forza di singoli con inediti e piraterie varie), avremmo gridato all’avvento mondiale del nuovo verbo costituente il senso stesso del fare musica nel terzo millennio. Se non proprio questo, almeno lo sdoganamento definitivo di IDM, techno e ambient ai piani alti delle amministrazioni discografiche potemmo sancirlo in maniera pressoché definitiva. E con noi svariate centinaia di band che, proprio in quegli anni, capirono di non essere in torto ad aver divorato interi cataloghi Warp, Mille Plateaux e affini.

Ora e solo ora, dopo ristampe più o meno potabili e registrazioni sparpagliate qua e là, possiamo avere tra le mani qualcosa che ci fa uscire dal corpo per tornare indietro a quei momenti e chiederci cosa succederà domani, che ne sarà del senso stesso di entrare in uno studio di registrazione quando sai di aver detto tutto a tutti e pensi di non avere più un ruolo su questo pianeta.

Kid A Mnesia (mai titolo fu più azzeccato, in un caso del genere: accorpare la metafora del primo clone umano al senso di svanimento cognitivo), infatti, è tutto tranne che la solita operazione di recupero celebrativo con riempitivi aggiunti. Kid A Mnesia è veramente quel doppio album che poteva essere e che non è stato. Al di là dell’ordine secondo il quale la sua sostanza viene proposta (nient’altro se non, consequenzialmente, Kid A, Amnesiac e un terzo disco di inediti e rimaneggiamenti; e ci sarebbero anche alcune b-sides qui escluse ma vive nei singoli di Amnesiac), ascoltare senza interruzioni, dall’inizio alla fine, questo gioiello vuol dire davvero essere a un palmo da quella perfezione assoluta che avrebbe distrutto ogni certezza mettendoci meglio in guardia (forse) da un divenire dalle cui stratificazioni tenere alla larga quelle più infettive.

Una perfezione, certo, dalle molteplici sfumature, visto che sia Kid A che Amnesiac sono dischi non completamente elettronici (come invece lo sono fino al midollo le esperienze solistiche di Yorke) ma decisamente sperimentali come approccio compositivo e produttivo (ciao, Nigel, come stai?), come scelta dei suoni e come loro giustapposizione nel corpo sonico complessivo. Una perfezione che, adesso, arriva a inglobare narrazioni audiofoniche (e visive) che, in un certo senso, completano il discorso offrendo dimostrazioni pratiche (che diventano delle vere e proprie sentenze) dei concetti espressi durante il percorso. Non si spiegherebbe altrimenti il meraviglioso video di If you say the word diretto da Kasper Häggström, dove spaesati capitalisti in giacca e cravatta in cerca di pace nelle aperte campagne vengono letteralmente accalappiati dai meglio aventi diritto e subito ricondotti nella realtà a cui hanno originariamente scelto di appartenere. Così come si spiegherebbe solo in parte il drone che tormenta Guy Pearce nell’altro video di lancio (quello per Follow me around), la presenza di una terza Morning bell a chiudere il cerchio delle nevrosi esistenziali, quella Like spinning plates che torna simmetricamente nella direzione corretta (in precedenza ne conoscevamo la sostanza solo grazie al live I might be wrong del 2001), l’eternamente cangiante True love waits la cui purezza va a disturbare la psicastenia di Pulk/pull revolving doors, le tre Untitled di passaggio (o è un ritorno?) metafisico e l’estrazione dei soli archi che sostengono la monumentale How to disappear completely (che qui diventa una How to disappear into strings da brividi per impatto emotivo e conferimento di senso dell’ignoto) in quello che sembra proprio essere un ritorno definitivo all’essenza umana dopo un viaggio lunghissimo tra le viscere di mondi paralleli.

Assistere alla ricostituzione di quello che poteva essere uno dei più grandi album doppi della storia del rock più recente, per noi che vivevamo tra le mura di un negozio di dischi, è dunque qualcosa di paragonabile a una sorta di realizzazione emotiva, qui e ora anche dopo venti anni di scoperte, recuperi, imprecazioni, sospiri e speranze di riappacificazione con un’idea di musica pari all’arrivo di un figlio o al ricongiungimento con un amico fraterno che non sentivi da una vita ma la cui vicinanza sembra non essere svanita mai nel corso del tempo.

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