
Quando vivevo a Roma, era quasi un obbligo morale provare ad alzarsi la domenica ad un orario potabile e, possibilmente, in condizioni meno prossime a quelle di un reduce da lazzaretto. Questo perché per chi, come me, era appassionato viscerale di suoni e relativi supporti discografici, Porta Portese rappresentava una sorta di Klondike per reliquie viniliche usate, spesso putrefatte, quasi sempre salvifiche per un periodo esistenziale fin troppo incerto e ricco di potenziali autoinfliggimenti morali prontamente scacciati dalla prestanza di idee mai sepolte.
Una volta scoperto – fin dal primo anno, in realtà – l’arcano della planimetria del quartiere invaso da migliaia di bancarelle di ogni genere e provenienza, presi e non mollai più l’abitudine di aggirare le mura per approdare direttamente nel paese dei balocchi.
Non era ammissibile attendere autobus e tram troppo lenti, tanta era la foga che mi cresceva dentro a partire dalla semiapertura del primo occhio la domenica mattina. Dunque Metro B fino a Piramide e poi di corsa oltre il ponte sul Tevere fino all’incrocio col viale, saluto rituale al Sacher di Nanni Moretti, sgommata a sinistra e poi inchiodata sulla piazza dove l’enorme mercato, teoricamente, finiva – per chi accedeva dalla storica porta principale e si sorbiva tutto il sovraffollamento di stand di vestiario e prodotti casalinghi – ma, in realtà, sfociava letteralmente in un oceano di bancarelle di antiquariato. Tra queste, almeno quatto o cinque vendevano dischi, questi antichi oggetti ludici mai precisamente identificati dalle attuali generazioni.
C’era e c’è ancora, credo, una coda di cavallo che sparava prezzi ad capocchiam ma ti faceva annusare primizie di alto rango, spesso preziose prime stampe. C’era (parlo al passato perché vivo io altrove, adesso) Pianeta Musica, che aveva due stand, uno in piazza e uno nella via più in giù, dove ho fatto incetta di 45 giri e recuperato varie cose che mi ero perso anni addietro. E c’era Gustavo Tagliaferri, che avrò imbottito di soldi per quanti vinili e cd gli avrò sottratto in anni e anni di passaggi. Che soggetto. Un pozzo senza fondo di cultura musical-storico-critica ben più che illuminante, se avevi la pazienza di starlo a sentire e se riuscivi a seguirlo dove girava il vento della sua capoccia. Che grandi cose, che trovavo lì. E che prezzi spettacolari.
Ma a proposito di prezzi spettacolari, c’erano anche varie ed eventuali in grado di farti trovare, di tanto in tanto, qualche cosuccia interessante tirata fuori da chissà quale sottotetto di zii, nonni e trisavoli passati a miglior vita (un primo Bennato, mi pare di ricordare, oltre a un cofanetto dei Pearl Jam rubato a chissà quale megastore e varie economiche Orizzonte a uno o due euro l’una).
Il motto, al giorno d’oggi, è via tutto. Che me ne devo fare? Via tutto. C’ho la casa piena di cianfrusaglie. Via tutto, che c’è da fare spazio. Ecco perché su una di queste varie ed eventuali – un’accozzaglia di cartoni stracolmi di fumetti, vecchi francobolli, antiche fotografie e cartoline in bianco e nero (il fascino emotivo suscitato da tutta quella marea di storie individuali abbandonate in strada non lo dimenticherò mai), libri ammuffiti e cassette porno d’annata – c’erano anche un sacco di dischi a due, tre o cinque euro. Cose completamente scomposte, in mezzo alle quali potevi trovare Lando Fiorini e un Quicksilver Messenger Service, i canti del fascismo e una raccolta di Burt Bacharach, i grandi successi di Claudio Villa e un 45 giri dei R.E.M, i primi di Gabriella Ferri e un Mink DeVille.
In quegli scatoloni ci frugavo spesso, prima di tornare alla piazza di cui prima per concluere qualche piccolo affare. Ci frugavo spesso e godevo a insozzarmi di polvere e sporcizia varia come se fosse sabbia da infilare in un secchiello in riva al mare. E qualche volta trovavo, veramente per due soldi, qualcosa che mi poteva incuriosire, che fosse una raccolta Lineatre di Lucio Dalla o un Joan Armatrading stravaccato in terra manco fosse un barbone.
Una volta, dentro quegli scatoloni lì, ci trovai Late for the sky di Jackson Browne. E cominciai a pensare.
Mi ricordai che lo zio mentore, anni e anni addietro, me ne aveva parlato più e più volte come del fratello maggiore che avrebbe sempre voluto avere, quello a cui confessare ogni paura e incertezza per ricevere conforto e consiglio vitale. Mi ricordai che mesi prima avevo preso alla Feltrinelli – in un’altra svendita “ti tiro tutto appresso week” – Running on empty ma non l’avevo ancora ascoltato. E mi ricordai che Travis Bickle dava inizio al suo definitivo giro di boa proprio sulle note di una sua canzone immensa.
Quanto vuoi? Tre euro? Non è proprio in ottime condizioni ma va bene, fa niente. Tieni. Lo presi e mi avviai verso la piazza dell’antiquariato per vedere quale sberleffo di computer music la coda di cavallo voleva rifilare al turista di turno o secondo quali nuove modalità di attrazione gravitazionale Tagliaferri cercava di spiegare a un qualsivoglia avventore perché il primo dei Ministry non appariva esattamente come quello che si delineava da The land of rape and honey in poi.
Mentre risalivo la via verso la piazza, mi sentii chiamare genericamente da una voce che non associavo ad alcuna conoscenza. Mi fermai, mi voltai sulla sinistra e vidi un uomo sulla cinquantina, brizzolato corto con pizzetto, jeans e Lacoste blu sbiadita (doveva essere quasi estate) che mi sorrideva. Io rimasi lì a non capire chi fosse o a chiedermi perché non ricordassi chi potesse mai essere quell’uomo. Lui si avvicinò con fare gentile e più fissava la vecchia stampa italiana di Late for the sky nella mia mano sinistra più il suo sorriso si allargava. Quando mi fu a meno di un passo, allungò la sua mano per stringere la mia. Acconsentii curioso e onestamente incredulo. Lui mi disse una specie di “bravo”, poi aggiunse qualcosa che mi è tornato in mente solo poche ore fa, riascoltando questa magnificenza sulla scia delle notizie che ne coinvolgono l’autore (che, per fortuna, pare stia bene, sintomi e forma virale lieve): “la più grande manifestazione di bisogno d’amore come salvezza dalle tenebre; fanne tesoro, mi raccomando”. Disse pressappoco così.
Non ho mai più rivisto né saputo chi fosse stato quell’uomo. Là per là pensai vabbè, questo è uno schizzato. Nel tragitto di ritorno a casa, però, non riuscii più a smettere di pensare a quella frase. E allora provai comprensione e rispetto. Ci doveva essere stato un motivo. Forse quell’uomo aveva visto una speranza di compagnia morale nella mia mano sinistra che reggeva il disco. Forse gli si erano riaperti ricordi e sensazioni di un tempo che credeva disperso tra le nebbie di un oggi che non diventa più domani. Forse ero cupo in volto o lo sembravo per via del sole accecante senza occhiali scuri a ripararmi, e allora, magari, rivedeva in me, in quel momento, un giovane sé frastornato dai suoi giorni che stava per trovare il fratello maggiore consolatore e consigliere.
Così rientrai in casa, misi qualcosa sotto i denti, scambiai due chiacchiere con un coinquilino e mi chiusi in camera mentre fuori, dalle vie a raggiera di piazza Bologna, si assopiva ogni spiraglio di caos per via del soleggiato tepore pomeridiano e delle partite in pay tv. E ascoltai.

Ripercorrendo i passi fatti fin dal principio / Fino a quando sono svaniti nell’aria / Cercando di capire / Come le nostre vite ci hanno condotto lì.
Certo, Browne parla di amori vitali e relazioni affettive che scemano in desolazione individualista senza che si riuscisse a comprenderne né a spiegarne la ragione, ma il fulcro tematico di tutte le otto canzoni che compongono questa meraviglia di album ruota intorno all’universalità di una sofferenza che solo la messa in Arte, in certi casi, riesce a lenire con tutto un bagaglio di doloranti istigazioni malinconiche. Motivo per cui, come capita spesso in casi del genere – e con opere di tale calibro, naturalmente – determinate intenzioni contenutistiche possono avere effetto anche su altre sfumature del proprio vissuto reale, perché le parole e la musica su cui sono cucite riescono a toccare concetti declinabili in esperienze emotive che viaggiano in parallelo con quelle dichiarate.
Ora c’è un mondo di illusione e fantasia / nel posto in cui dovrebbe esserci il mondo reale.
A salvarmi dalle tenebre, già in quel periodo, era accorso quel meraviglioso angelo che ho la fortuna di avere ogni giorno al mio fianco. Però altri oscuri anfratti interiori, meno invasivi di quelli decantati da Browne ma comunque presenti a battere cassa, scandivano interi periodi di vuoto a tempo indeterminato. In poche parole, non riuscivo ancora a trovare un ruolo pratico, un dare e avere professionale magari anche solo materiale ma che mi aiutasse ad avviare un’età adulta che faticava a maturare e che, però, fosse in linea con le mie storiche e inossidabili aspettative.
Tutte le mie potenziali qualità venivano meno laddove l’epoca in corso non ne consentiva più una giusta valutazione. Per questo anche se i motivi che avevo non ci sono più / continuo a credere che troverò quello che cerco mi arrivava in faccia come la conferma senza tempo di tutto quello che il mio angelo non smetteva – e non smette ancora adesso – di ricordarmi, anche se trascorro il tempo ai piedi di un pozzo dei desideri che ormai so essere difficilissimo trasformare in realtà, ma non definitivamente impossibile.
Forse, a questo punto della mia esistenza e in questi giorni così ancorati a un’immobilità che i doveri tentano sempre, a tutti i costi, di trasformare in dinamismo produttivo – per cosa, esattamente, mai lo si saprà – dovrei davvero provare, una volta per tutte, a rallentare camminando piano lungo la strada, soffermandomi a cercare – e raccogliere – esclusivamente ciò che davvero conta per quello che sono adesso e che vorrò a tutti i costi consolidare in un futuro quanto più immediato possibile. Perché, in fin dei conti, se muoio tra un bel po’ / credo che ognuno continuerà ad andare avanti. Tanto vale, allora, scacciare subito via le tenebre di una vita all’insegna di ciò che, sotto certi aspetti, non si potrebbe mai continuare ad essere.