
Silenzio.
Quiete.
C’è bisogno di quiete.
O sono solo io che ho bisogno di silenzio, di stasi, di pace, di quiete. Di stare fermo sul letto a fissare il soffitto, come quando quel caos arginava ogni senso dell’azione, una qualunque azione, verso un moto pratico incerto ma desideroso di un utile, un qualunque utile, un tornaconto sostanziale senza sostanza, un continuo reiterarsi di tentativi per scopi indesiderati ma dannatamente necessari, visto che il sospiro non è cibo.
No, di certo non sono il solo.
Perché un nuovo caos devasta quello che resta di un cervello come quello di tanti altri, in questi giorni assurdi. Si chiama cogliere l’occasione. Si chiama sfruttare il tempo concesso ai fini di una sana formazione, stuprare divini scampoli di dono riflessivo per incrementare una non meglio precisata capacità di accumulare concetti inammissibili di evoluzionismo performativo. Ma la domanda resta sempre quella. Perché? Per cosa? Per chi?
Perché c’è anche gente, tanta gente, che non ha compreso. Non ha capito. Non può intuire, perché ha tutti i mezzi fondamentali per emergere come un leggiadro delfino tra oceani di squali ma non arriva a intuire il disagio di una costrizione, l’esigenza suprema di fermare tutto, di chiudere tutto, di transennare il fin troppo comune senso dell’assurdo, dell’insensato, dell’inadatto, dello stentatamente fuori luogo.
Fuori luogo, sì. Come una mente e un’anima satura di una futilità da continuare a legare alla cuccia dei bisogni primari. Fuori luogo, certo. Come l’accettare, se non altro, dopotutto, di distrarsi un po’, di non pensare, per otto ore impiegatizie, a quello che c’è fuori dalla finestra di questo stanzino. A ciò che è qualcosa e non è nulla. Che è la fine di un’idea di mondo e l’inizio di una speranza di redenzione collettiva. Disattesa, ve lo metto per iscritto qui e ora.
Quando Max Richter, assieme ai suoi musicisti, compiva il primo lento e morbido passo sul palco ricavato nel cuore del Kraftwerk Berlin, non aveva la minima intenzione e non pensava neanche lontanamente di dover performare.
Per una solennità assoluta come quella emanata dall’immensità emotiva di un capolavoro umano come Sleep,non occorre nemmeno pensare di performare. Non è proprio concesso.
Ai suoi piedi non comuni posti a sedere ma letti, brandine. Non comuni spettatori ma esseri umani desiderosi di un’esperienza, di un diverso, di qualcosa che permetta loro di ricominciare, almeno da qualche altra parte di un ancora indecifrato universo parallelo.
Ed è mezzanotte, non le nove di sera. Ed è questo il punto. Non c’è da assorbire ma c’è da lasciarsi assorbire da otto ore di suoni ancestrali. Perfetti. Unici. Insostituibili. Sposta una sola frequenza e crolla tutto. Sposta una sola rifrazione emotiva e l’occhio materiale, quello sbagliato, si apre per non chiudersi più. Perché le luci dell’alba arriveranno comunque a ricordare che c’è ancora, di nuovo, imperterrita, sempre la stessa realtà tattile da affrontare, da rispettare, da annotare nell’agenda delle costrizioni. Per performare, per fare formazione, per evolvere la tecnica, cercare e trovare sempre nuove soluzioni per performare, per fare formazione, per evolvere la tecnica, cercare e trovare sempre nuove soluzioni, sempre nuove soluzioni, sempre nuove soluzioni, adeguarsi al ritmo, adeguarsi all’algoritmo e performare, per fare formazione, per evolvere la tecnica, cercare e trovare sempre nuove soluzioni, sempre nuove soluzioni, sempre nuove soluzioni, adeguarsi al ritmo, adeguarsi all’algoritmo.
Ma quale superlativa melodia, quella che attraversa l’intera opera e si capovolge, si trasforma, si mescola a una miriade di altre immagini uditive proprio come in quella vita parallela che chiamiamo sogno. Per far sì, forse, che tutto, almeno per un po’ si calmi. Che tutto ritorni laddove dovrebbe definitivamente dimorare.
Ed è questo il punto.
Vorrei godermi il viaggio.
Vorrei potervi vedere dall’altra parte.