David Bowie – The next day (Sony Music, 2013)

Visto che lo stato delle cose mi porta implicitamente, in questi giorni, a ripensare a David Bowie, mi sono ricordato che una volta – oltre l’articolo un po’ fuori dalla norma che trovate tra queste pagine – anch’io ho scritto una recensione di un album del duca bianco. Non mi era mai capitato di farlo, non avevo mai rivolto l’attenzione a un suo album nello specifico, vuoi per ragioni anagrafiche (il disco in questione è il penultimo, The next day, e quello precedente, Reality, risaliva a un periodo in cui ancora non avevo cominciato a dimenarmi come un ossesso tra le grinfie della scrittura giornalistica), vuoi perché quando non sono sicuro di padroneggiare un argomento, io, a differenza di tantissimi altri, me ne sto buono e zitto. Però, in questi giorni, la testolina mi ha riportato a quel marzo 2013 in cui – preso dalla gioia del provare a comprendere come il buon David, a fronte di una tranquilla possibilità di tirare fuori un normalissimo disco di canzoni, avesse scelto, per contro, di stravolgere ulteriormente le carte in tavola – mi cimentai nel tentativo di esprimere le sensazioni iniettate in me da quel disco. Questo fu, più o meno, il resoconto.

Mario Monicelli, Amici miei, atto primo, frase storica in risposta alla domanda «Che cos’è il genio?»: «Fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione». Fantasia: trascorrere intensamente cinquanta indefinibili anni di carriera sempre all’insegna del nuovo, alla luce solare del concetto stesso dell’essere precursore di consapevolezze stilistiche originate da inossidabile curiosità compositiva altrui, prevenendola. Intuizione: vivere il biologico crollo fisico ad un’età non così avanzata eppure carica del peso proprio di quegli indelebili cinquant’anni di esperimenti sia concettuali che materiali, quindi comprendere il dovere di fermarsi, riflettere, pensare, commemorare, scegliere, decidere e agire come, dove e quando lo si ritiene (più o meno) strategicamente opportuno. Decisione e velocità di esecuzione: spuntare sui social network (quindi avendo assimilato l’allora non ancora esploso medium) all’improvviso, dopo dieci anni di un silenzio per molti equivalente al decesso artistico, farlo con un nuovo splendido album e intitolarlo The next day, il prossimo passo sul suolo lunare del proprio stesso considerare lo scrivere canzoni come una necessità ben più vitale dell’ossigeno, ben più urgente di una qualunque fame o sete sopravvivente. Questo è il genio. Questo è (anzi, è sempre stato) David Bowie.

Nessuno riusciva a credere ai propri occhi al comparire dell’annuncio ufficiale con annesso videoclip, ma il suddetto genio, dieci anni dopo l’ultima esperienza discografica in studio (Reality), era di nuovo lì e nel migliore dei modi (un segnale lo si era già lanciato, se vogliamo, con la “sbobinatura” audio di un dvd live, quello relativo al Reality tour), forte, cioè, anche di una copertina (genio nel genio) inneggiante al senso di precarietà grafica tanto quanto esistenziale. Accorgersi della celeberrima immagine dell’altrettanto celeberrimo capolavoro berlinese Heroes sostanzialmente corretta quasi a mano (se non fosse per i caratteri che, a mala pena, cancellano la dicitura originale e riportano il titolo sovrimpresso come in un pratico “copia & incolla” cartaceo) sulle pagine di blog o siti internet adibiti alla prevendita del prodotto indicato aveva un sapore praticamente prossimo alla presa per i fondelli, al cosiddetto “tarocco”. E invece, per l’occasione, non c’è copertina più giusta e precisa di questa, dove passato e presente, in perfetto matrimonio tematico diegeticamente interno all’opera, si sommano in maniera rudimentale tanto evidente da evocare a caratteri cubitali il senso di sincera urgenza espressiva, una percezione scaturita dal recupero della propria stessa persona al di fuori di un decennio trascorso nella cura scrupolosa della propria preoccupazione di voler tornare a cantare le gesta di un intelletto inestinguibile, dalla rinascita a nuova vita di una delle menti musicali più elevate dell’intera storia del rock ma (saprete bene) non solo.

Quattordici nuovi tasselli (diciassette nell’edizione deluxe) compongono, dunque, un eterogeneo mosaico sia di pure canzoni che di vere e proprie immagini audiofoniche, a partire dalle memorie del brano di rilancio Where are we now, riecheggianti l’aroma intimista di certe composizioni alla Heathen così come esplicitamente ricollegate, narrativamente, proprio alle trame di vita trascorse nell’allora frammentata capitale tedesca, tra i meandri delle fredde e grigie strade della metropoli dispersa e il calore tutto intimo e personale dello studio di registrazione condiviso con anime del calibro di (tra tutte) Brian Eno. L’epocale “trilogia berlinese” resta, dunque, sospesa nel limbo di ogni nota per quasi tutta la durata dell’album, dai nuovi esordi dell’omonima The next day (non molto lontana dalla Beauty and the beast, apertura di Heroes, con la maturità stilistica di una New killer star da Reality) agli echi decadenti dei sax altalenanti di Dirty boys, passando per i ritorni normodotati della verve pop rock di The stars (are out tonight), secondo tassello radiofonico anticipatore contornato, tra l’altro, da un eccezionale video firmato Floria Sigismondi (Tilda Swinton in veste di coprotagonista). Ma le ritmiche pulsanti del terzo capitolo berlinese, Lodger, si fanno vive in combustione con scelte tastieristiche e chitarristiche solitariamente fantasmatiche come nei frammenti della splendida Love is lost o inerenti alle genialmente spossanti Valentine’s day If you can see me, salvo poi strizzare l’occhio a Low in I’d rather be highBoss of me prima di richiamare alla memoria comunque ben note e pur geniali esperienze pop in Dancing out in spaceHow does the grass grow? (non è così difficile farsi venir voglia di piazzare sul giradischi un certo Let’s dance assieme al fratello meno fortunato, Never let me down). Il Bowie delle origini puramente rock riecheggia, inoltre, tra i riff della diretta (You will) Set the world on fire seppure un certo intimismo da piena maturità fine ’90 (in questo caso, forse, sono evidenti alcuni tratti più di Hours che di Heathen) chiude le danze tra la passione umana di You feel so lonely you could die e il calore della conclusiva Heat.

C’è tutto, davvero tutto qui nel “giorno dopo”. Un tutto che sembra quasi volersi autorappresentare sia in qualità di recupero passato che di cognizione di causa presente per una chissà quale ipotesi di futuro, qualora fosse dato conoscerne o anche solo ipotizzarne uno (lo stesso Bowie ha smentito, in primis, la possibilità di avviare un pur breve tour internazionale). Ad ogni modo, The next day è David Bowie dal primo all’ultimo sibilo, dalla prima nota scritta fino all’ultimo respiro affidato al microfono prima di andare in stampa. Se, quindi, continuare a respirare musica sarà la priorità, il bisogno viscerale di raccontare e raccontarsi potrebbe essere la causa di una rinnovata continuità.

“Il bisogno viscerale di raccontare e raccontarsi”, supponevo. Il passo successivo sarebbe stato Blackstar. Impressionante.

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