Una top 10 per il 2019

Le classifiche servono a ben poco, tanto quelle di ascolti in streaming e visualizzazioni su YouTube che coinvolgono “artisti” col manager buono (e costoso almeno quanto le utenze e le visite acquistate con tanta apprensione) quanto quelle dei migliori o dei peggiori di questa o quella annata. In tanti si stanno affannando a ripescare soprattutto dischi e film per celebrare (ma per cosa, esattamente?) addirittura l’intero decennio che sta per essere archiviato. Avete del tempo o, più che altro, un po’ di pazienza da perdere? Fate pure, per carità. Fatto sta che, dai tempi in cui vivevo letteralmente in un negozio di dischi, il vizietto delle classifiche (mantenendomi rigorosamente a quelle annuali, così, sai com’è, tanto per non impazzire e azzannarmi con qualcuno) ce l’ho sempre avuto anch’io, per quanto nel corso dei dodici mesi in questione, magari, non sia riuscito ad ascoltare lo stesso numero di album di chi lo fa veramente (beato lui) per (quello che avrebbe dovuto essere da sempre anche il mio) mestiere.

Perciò eccoci qua pure al cospetto del sottoscritto.

Già vi vedo, qualora la cosa dovesse destare interesse in voi (in seguito al quale, naturalmente, vi ringrazierei comunque moltissimo): “eh ma manca questo!”, “oh ma perché non hai messo quello?!”, “neh, quello là ci deve stare per forza, dai!”. Neil Young? Sì, va bene, però c’è di meglio. Springsteen? Bello pure quello, certo, ma in questa fase della mia vita, sinceramente, sono più interessato ad altro. E poi, a lungo andare, lo stare sempre lì a veder mungere le vacche finisce per stancare. Swans? Eh già, gli Swans. Ho sempre qualche difficoltà ad arrivare (vivo) alla fine di un disco degli Swans, perdonatemi. Potrei andare avanti ancora per ore, volendo.

E poi una top ten è una top ten. Dieci nomi per dieci titoli e basta, niente bonus track, outtakes o pentimenti di sorta, come vedo fare spesso in giro. Perciò eccoli qua, con tanto di motivazione (cosa che, invece, non vedo spesso fare in giro).

Buon anno a tutti. E che almeno uno dei nomi che potreste non conoscere, tra quelli in questa breve lista, possa incuriosirvi almeno un po’.

10 – FABIO ORSI: “Di lumi e chiarori”

C’è bisogno di più ambient isolazionista, a questo mondo, e Fabio Orsi – uno dei nomi nostrani più pregiati a livello internazionale – rende onore a una tale supposizione con un dato di fatto: quattro CD per oltre due ore di suoni artici, glaciali, estremamente stratificati, eterei ma mai sconnessi nella comune intenzione di costruire spazi sonori reali, tangibili. C’è bisogno di uscire dalle mura delle imposizioni dall’alto e questa musica dimostra che è possibile, anzi doveroso adoperarsi per una concreta salvezza spirituale e mentale.

9 – I HATE MY VILLAGE: “I hate my village”

Grezzo, ruvido, noncurante di piacere per forza di cose a qualcuno, il side-project di Alberto Ferrari (Verdena, che prima o poi proverò a capire, lo prometto), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) partorisce un album corrosivo ma, al contempo, molto attento a miscelare senza particolari squilibri ritmiche africanoidi, noise e sprazzi di hard blues lisergico ma dalla costruzione attenta, precisa e dettagliata.

8 – GIANNI MAROCCOLO: “Alone vol.II”

Prosegue il progetto di disco perpetuo dell’ex fondatore di Litfiba e CSI, ad oggi personalità artistica di riferimento per chiunque voglia anche solo provare a evadere dalle gabbie dei circuiti nazionali per guardare ben oltre il proprio stesso naso tappato. Il secondo volume del progetto si stacca da alcune forme di maggiore coerenza del primo atto per liberare la propria più intima natura ideologicamente libera da imposizioni di mercato o di struttura. Meravigliosa la declinazione in metafora polivalente del concetto di abisso, dalla realtà delle cronache odierne alla più profonda (appunto) riflessione relativa alla condizione umana in un mondo sempre più mostruoso e basato su squallide e infime menzogne. Preferisco questo secondo capitolo al terzo (uscito a dicembre e pure ammirevole nei contenuti ma) forse più incerto nelle costruzioni sonore e titubante nella proposta complessiva (da riascoltare comunque con più attenzione).

7 – THE LAST INTERNATIONALE: “Soul on fire”

Per me restano sul podio delle migliori band di rock blues a livello mondiale, con tanto da dire sia per talento che (udite udite) per cultura. Spiego tutto qui.

6 – MOTORPSYCHO: “The crucible”

La direzione intrapresa, ormai, è chiara e punta sempre più verso un avant-prog che, soprattutto nel caso di questo lavoro, torna un attimo indietro nel tempo per prendere nota da ulteriori maestranze del settore, in modo da compiere il consueto ed ennesimo passo in avanti verso orizzonti sempre più complessi ma non per questo inavvicinabili. Anzi.

5 – THOM YORKE: “Anima”

Personalmente reputo i lavori di Yorke solista ben più interessanti di quelli sfornati tra le fila dei Radiohead nel corso degli ultimi (almeno) dieci anni. Percepisco più emotività, più interesse nello sviluppo di contenuti che possono anche sfuggire al solo dato musicale (vedi lo splendido cortometraggio di Paul Thomas Anderson). Anima, probabilmente, è più sensorialmente incisivo rispetto ad altre realtà pure interessanti. Anche se non proprio in grado – come dice qualcuno – di rinnovare il dato sonoro dal punto di vista metalinguistico, penso sia un esperimento certamente consono ad alzare un filino l’asticella delle capacità di ricezione artistica.

4 – GIULIO ALDINUCCI: “No eye has an equal”

Che meravigliosa scoperta, quella che ha visto le mie orecchie (e la mia stessa personalità) entrare in contatto con i suoni generati dall’ultimo meraviglioso lavoro di Giulio Aldinucci, altra sontuosa personalità di riferimento nostrana ambient-drone isolazionista. E che splendore la drammatica gravità con la quale costui seleziona così meticolosamente note (poche ma perfette) e modulazioni (infinite) per giungere alla creazione di campi di magma sonico sempre in continuo divenire, in funzione di ricezioni da predisporre a mente calma e cuore aperto per rendere brillante specchio dei sensi anche la più marcia e squassata delle pareti del carcere che, a volte, coincide col dovere del divenire.

3 – NICK CAVE & THE BAD SEEDS: “Ghosteen”

Puntando l’occhio alle diramazioni di notorietà ben più vaste a livello planetario, quello dimostrato dal buon Nick Cave (e dai suoi Bad Seeds in sublime sintonia con lui) è un esempio di assoluto coraggio che in tanti dovrebbero provare a seguire, se solo avessero realmente qualcosa da dire. Lui, di cose da dire, ne ha sempre avute a barili, trasformatisi, nel tempo, da contenitori di pece in scatole magiche capaci di ritrovare un senso del tutto universale anche in situazioni di tragico sconforto che avrebbero stroncato chiunque. Lui invece no, esorcizza demoni a colpi di divino e dona tutto sé stesso a chiunque ne voglia assorbire almeno un pezzo attraverso un blog. E mette al mondo una vera e propria messa da requiem che libera (almeno in parte) il proprio sé dal dolore più atroce (la perdita di un figlio) e l’idea di canzone dalle grinfie della struttura.

2 – FENNESZ: “Agora”

Stesso discorso emotivo (non valido per il fattore svezzamento in quanto già figura a me nota) che vedeva protagonista, poco più su, Aldinucci vale anche per un vero e proprio maestro di genere, finalmente tornato alla composizione e alle improvvisazioni dal vivo con anche una certa riscoperta di un individualismo cosmico che non è mai onanismo, anzi contribuisce alla delineazione di masse sonore emotivamente devastanti che, però, hanno necessariamente bisogno di attitudine e predisposizione per poter maturare e germogliare in ulteriori campi sensoriali disposti ad accogliere un discorso associativo di così enorme valore.

1 – TOOL: “Fear inoculum”

Non poteva essere altrimenti, per il sottoscritto. E no, non ci hanno messo tredici anni a fare un disco: sono stati bloccati legalmente per otto, impiegando i canonici quattro o cinque per composizione, registrazione, rifiniture e (ancor più meticolosa) pubblicazione. Perché i Tool non sono mai soltanto una band e un loro disco non è mai soltanto un disco. Anche Fear inoculum, seppur non ai livelli dei suoi predecessori (ma è un discorso che comunque non ha senso perché qui le carte in tavola sono ben diverse, che lo si voglia o no), sprigiona un’enormità di contenuto sensoriale che va platealmente oltre il solo dato sonoro, ricco com’è, anche questo, di riferimenti cultural-esoterici che proveremo a cogliere anche in questo caso in anni e anni di ricerche e approfondimenti (l’ambivalenza complementare tra bene e male, luce e buio esistenziale, fattore che rende palindromo anche l’atto di ascolto, in cui il senso dell’album viene fuori analizzando i brani dall’ultimo al primo, in ordine inverso). I brani sono pochi e molto lunghi, certo. E menomale, così facciamo un po’ di sana selezione naturale tra chi merita veramente di ricevere doni di così incommensurabile portata e chi sta bene con le playlist di Spotify per i secoli dei secoli. Perché qui l’opera d’arte è opera d’arte, la musica è una cosa seria, l’esistenza è di per sé musica, l’universo umano non è fatto mai soltanto di carne ed ossa e la vastità di un discorso così immensamente trascendentale non la si trova più da decenni in nessuna produzione di così vasta portata. Semplicemente immensi.

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