
28 ottobre 2003. Concerto degli Iron Maiden al Palasport di Firenze. Io e Stefano P. – omonimo amico d’infanzia – arrivammo nel piazzale antistante la struttura in tarda mattinata (o forse era primo pomeriggio, non ricordo bene) e rimanemmo lievemente stupefatti (inesperti pivelli delle staffette da live tour) da quanta gente fosse già lì appitonata chissà da quante ore. Ci guardammo un po’ sconsolati (le prime file sono sempre le più ambite, per molti; in più, in quegli anni credo non esistesse ancora l’ossessione per l’ignobile classismo del “Pit”) ma fa niente, nessun problema, vorrà dire che ci sistemeremo con calma in platea e ci godremo ugualmente lo spettacolo che tanto abbiamo atteso (per ragioni sia economiche che anagrafiche) di assorbire.
Non vedevamo l’ora di ammirare dal vivo i nostri beniamini di allora in carne ed ossa, e sapevamo che sarebbe venuto, nello specifico, anche un nostro amico in particolare. Cominciammo a buttare qualche occhiata su e giù tra la folla ammassata davanti ai cancelli e, neanche il tempo di lanciare un reciproco “ma tu lo vedi?” che fu lui a vedere noi.
Era Peppo (all’anagrafe Giuseppe Aufiero), detto “il Bassiere” (per ragioni che mi sono sempre state ignote; certo, da musicista metal – ma non solo – è sempre stato bassista e avrebbe toccato livelli eccellenti, specialmente negli ultimi anni da insegnante; ma chi lo sa, forse la desinenza “ere” aveva una valenza di declinazione di bassista in forma di gran sgobbatore, enorme macinatore di corde al vetriolo con sublime dispendio di sudore e dedizione – caratteristiche che, in effetti, indiscutibilmente aveva).
Il soprannome glielo aveva affibbiato Pino, il commesso che non era solo un commesso di un negozio di dischi che non era solo un negozio di dischi (Ananas & Bananas, ora Camarillo Brillo Dischi) in quanto insormontabile punto di ritrovo, scambio e condivisione di conoscenze, opinioni ed esperienze (anche pratiche: molte band si sono formate lì; non importa, poi, che fine abbiano fatto) che, complici parentele precedenti o cicli di passaparola, ci aveva visto nascere ad Avellino, crescere (evitando la strada, gli aghi e la depressione), sopravvivere (con la mente oltre che con il corpo) ed emigrare.
Pino – almeno nel periodo in cui io, personalmente, cercavo di costruire un barlume di identità primigenia – era un vero e proprio dispensatore di saggezza nella seconda sede (specializzata in titoli esteri di qualsiasi genere) di via Dante Alighieri (dietro l’angolo rispetto all’ubicazione principale del negozio, che era in corso Vittorio Emanuele) ma anche un grandissimo aggregatore. In luce di ciò, il buon uomo distribuiva soprannomi manco fossero carte in una bisca clandestina. Il mio era “Stefano Mè”, dove “Mè” stava per diminutivo di “Manson” italianizzato (la mia colpa era stata quella di aver acquistato, anni prima, una copia in cd di Antichrist superstar di Marilyn Manson; atto che, ad ogni modo, tuttora rivendico per quanto non si volle far passare inosservato). Quello del mio amico omonimo era “Stefano Pè”, dove “Pé” erano le prime due lettere del suo cognome (sarebbe diventato, in seguito, “Copia&Incolla” per via delle sue spiccate doti di replica per mosse segrete degli avversari che sfidava a suon di PlayStation 2).
Così, a Firenze il 28 ottobre 2003, non ebbi difficoltà a distinguere, tra la folla, il lontano eco di un sonoro “Uè Stefano Meeeeeeeeee!!!” di Peppo che evidentemente, tra i due, aveva visto prima me. “Uè Bassiè!”, facemmo io e Stefano P. all’unisono, e ci dirigemmo verso la sua sagoma tozza contornata da borchie, capelli neri lunghi liscissimi e pizzettone d’ordinanza che ci faceva segno da dietro una fila di transenne d’acciaio leggermente incastrate tra loro per contenere la calca davanti ai cancelli. Chissà a che ora era arrivato per stare così avanti in mezzo a quel marasma, provammo a pensare prima di assistere a un gesto semplicissimo, innocuo, per chiunque inconsistente ma che ancora oggi ricordiamo con una dose di amore sovrumana perché ne conoscevamo l’origine: le manone di Peppo afferrarono l’innocente transenna alla sua sinistra, la sganciarono dal legame con le altre transenne, la sollevarono in aria e la adagiarono di lato per creare uno spazio davanti a lui; poi la mano destra si alzò e fece il gesto del “vieni qua”, mentre il faccione calò leggermente verso il basso e assunse la naturale posa del “non ti preoccupare”. Ci fiondammo felici e ridenti verso di lui, ci salutammo, ci abbracciammo e vivemmo la giornata come avevamo sempre fatto nel corso degli anni. Il pogo selvaggio sotto i Gamma Ray in apertura ci massacrò al punto da non consentire di ritrovarci fino all’indomani, ma non importa.
Dietro quel gesto c’era qualcosa di molto preciso, per quanto istintivo (ed è proprio questo il punto). Dietro quel gesto, per chiunque altro soltanto spassoso e divertente, c’era tutta una storia. Una storia di avvicinamento e inclusione. Una storia di condivisione di speranze e apparenti illusioni. Una storia maturata proprio lì, tra le mura di quel negozio che non era solo un negozio, coadiuvata da un commesso che non era solo un commesso e supportata a dismisura da gruppi di persone – tra cui noi – che la musica la vivevano per davvero.
Vivere la musica, per noi, non voleva dire solo ascoltare dischi e rimanere aggiornati sulle novità del momento. No. Vivere la musica voleva dire cesellare la propria identità in funzione di un trasporto culturale, emotivo e anche ideologico che ha come base portante il reciproco ospitarsi di spiriti dediti ad una forma di pensiero che travalica ogni parvenza ipotetica di ostacolo, tanto fisico quanto interiore. In un non-luogo come era (ed è, oggi più che mai) Avellino, uscire di casa consapevoli dell’esistenza di un posto in cui, una volta avvicinatisi per maturata inerzia, si era certi di incontrare anime salve dalla comune indifferenza – detestabile disprezzo verso qualsiasi cosa covasse l’urgenza di maturare un’idea, un pensiero, una voglia di fare qualcosa di diverso dallo stare dietro una scrivania ad archiviare carte e dati – risultava determinante per lo sviluppo di amicizie profonde e forme di autentico rispetto reciproco che consentivano di sognare, certo, ma anche progettare, architettare una parvenza di futuro secondo i propri più intimi ma concreti desideri (tanto personali quanto appresi da simili scambi ideali).
Conobbi Peppo mentre faceva la sua consueta “scorta di metal”. Altro non era che il venirsi a prendere, periodicamente, un vero e proprio carico di dischi di band, lì per lì, mai sentite nominare ma che in seguito avremmo imparato a conoscere ampliando a dismisura i nostri orizzonti auditivi. Veniva apposta da Montoro a lasciare sul banco, ogni volta, due o tre centoni (forse anche di più) e caricarsi in spalla pacchi interi di dischi di importazione (all’epoca Amazon e simili non erano neanche embrioni e internet, il mitico 56k, andava a ore) che il buon Pino sapeva sempre intercettare seguendo l’apposita lista dei desideri precedentemente fornita.
Di lì in poi, sorse tra me e lui quel qualcosa che un giorno mi spinse a tornare rapidamente a casa per prendere un’aspirina e portargliela in negozio per placare un mal di testa che lo infastidiva da ore. Gli incontri cominciarono a moltiplicarsi all’insegna di un caffè, di letture e di infiniti ascolti dai lettori portatili di entrambi. Si moltiplicarono anche gli scambi di consigli e le chiacchierate incentrate sulla voglia di trasformare in realtà i nostri progetti, i nostri desideri incalliti di acculturarci a sufficienza per avere il sacrosanto diritto di formare o far parte di una band e scrivere, incidere, sfasciare cantine, calcare palchi, sudare, sorridere, stare bene sapendo di essere quello che si desiderava essere.
In una pseudo-città che è sempre stata un grande paesucolo, esorcizzavamo argomentazioni che circumnavigavano vita, morte, religione, amore, odio e consistenti titubanze psicologiche attraverso una goliardia insita nella consapevolezza dell’esistenza ormai effettiva di una reciproca comprensione, con conseguente voglia di saperne di più su tutto, sempre e comunque.
Poi le strade, negli anni, si divisero: io scelsi Roma, lui cominciò a realizzare il sogno di lavorare concretamente nel mondo della musica in quel di Milano. Poi io sarei salito ancora più su, dove mi trovo ora, e lui sarebbe ritornato a casa con un quantitativo di gioia che non ho mai compreso pienamente, ma non importava. Negli ultimi anni – contraddistinti da un elastico di ritrovamenti sempre più lungo e smollato – le rare volte in cui, tra impegni ed effettiva mia presenza sul luogo (sempre più improbabile), ci si riusciva a vedere, suonavano come se fosse passato un giorno o al massimo due, consapevoli che sarebbe stato lo stesso per la volta successiva, tra chissà quanti anni.
Ed è per questo che aver saputo, oggi, della sua scomparsa, così fulminea e così irritantemente immeritata, provoca una fitta terribile tra le costole di un tempo che sento scivolare via neanche fosse l’acqua che mi scorre in gola e che provo a deglutire per diminuire i giri della rabbia e del rancore. Un’acqua diretta verso l’abisso di uno stomaco che è diventato pietra a furia di parare colpo su colpo con la maestria di chi ha imparato a incassare e reagire a testa alta anche grazie al bagaglio interiore di quegli anni di reciproca immersione.
Qualunque cosa ora lui sia, che la terra gli sia davvero lieve.
2 pensieri riguardo “In memoria del Bassiere. Che la terra gli sia davvero lieve”